Una storia al giorno

06 Settembre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

6 settembre. Oggi, più storie in un giorno perché questa è una data che ha fatto la storia dei 1500, cominciando dal 1960, quando all’Olimpico romano Herb Elliott, l’asso calato dall’Australia Occidentale, fece una cosa sublime: la vittoria olimpica con il record del mondo, un tempo che ancor oggi farebbe gola a molti, 3’35”6, e con un distacco da cronoprologo a pedali, tre secondi su Michel Jazy, uno dei campioni amati da Charles de Gaulle. Trentadue anni dopo, sempre in Lazio, sulla pista benedetta del reatino Guidobaldi, Noureddine Morceli avrebbe dato una scossa al record e vinto il derby (a distanza) del Maghreb: Said Aouita marocchino e il suo 3’29”46 berlinese dell’85 venivano cancellati dall’algerino, cittadino onorario della capitale della Sabina, che, sfruttando l’eccellente lavoro organizzato da Sandro Giovannelli ed eseguito dai kenyani Sammy Koskei e Joseph Cherono, chiuse in 3’28”86, dopo una recita solitaria negli ultimi 300, consumati in 41”5.

Ma c’è da parlare d‘altro, ad esempio della fraternità in fondo a un lungo scontro, riassunta nella vecchia foto di Rafer Johnson che appoggia la testa sulla spalla di Yang Chuan Kwang. L’oro del decathlon di Roma ’60 è stato appena assegnato, in fondo a due giornate interminabili, e anche i titani possono essere stanchi. Rafer e Yang, membro di una razza (Takasagu) che abitava Taiwan prima dell’arrivo dei cinesi, un migliaio di anni fa, erano compagni di università alla californiana Ucla, avevano già gareggiato a Melbourne ’56 (secondo e ottavo) e in comune avevano l’allenatore, Ducky Drake che, prima del colpo di pistola dei 1500 distribuì all’uno e all’altro, divisi da 67 punti, i consigli del caso. A Johnson: “Stagli attaccato ai talloni e preparati a un finale d’inferno”. A Yang: “Vedi di accumulare vantaggio e prova a dare tutto quando sentirai la campana”. Yang attaccò, Johnson provò ad addentargli i talloni e finì per cedere per poco più di un secondo. L’oro fu suo per 58 punti e, a scorrere i parziali, risulta evidente che la differenza fu scandita dal disco: l’americano approdò a 48 metri e mezzo, il taiwanese non raggiunse i 40.

Sino a quel momento, l’equilibrio si era trasformato nella più potente ed eccitante delle spezie, a cominciare da una prima giornata in cui la velocità di Yang aveva avuto spesso la meglio sulla forza di Rafer, capace di superare i 15 metri e mezzo nel peso, ma costretto ad accusare nei 100 (10”7 a 10”9) nel lungo (7,46 a 7,35), nell’alto (1,90 a 1,85), nei 400 (48”1 a 48”3) in fondo a un impegno che si esaurì alle 11 di sera. Johnson, che aveva 13”9 ei 110hs, fallì la prova inaugurale della seconda giornata prendendo in pieno la prima barriera e raccogliendo un misero 15”3: Yang corse in 14”6 (e Franco Sar, 14”7, mise le basi per il suo formidabile sesto posto) e lanciò il suo serrate ma il sogno di diventare il primo taiwanese a vestire i panni di campione olimpico venne frustrato dalla resistenza di Johnson che limitò i danni nell’asta (4,30 a 4,10), guadagnò qualcosa nel giavellotto e strinse i denti su quella distanza che per i proteiformi prende spesso le sembianze di una maratona. Otto anni dopo, Rafer, assai vicino alla Famiglia, era al fianco di Robert Kennedy nelle cucine dell’hotel Ambassador di Los Angeles: toccò a lui reggere il capo di Bobby negli ultimi istanti di una breve agonia.

Giorgio Cimbrico



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