Un giorno, un'impresa
10 Maggio 201310 maggio. Data che lascia il segno perché nel 1966, a Londra, nasce Jonathan Edwards che fornì uno dei momenti più puri, più tersi in un pomeriggio assolato e perfetto, allo stadio Ullevi di Goteborg ’95 (era il 7 agosto e il Mondiale svedese toccò il suo punto più alto e più lungo, 60 piedi) quando la sua velocità, la sua tecnica radente, la sua fede razionale lo portarono a rimbalzare prima a 18,16, un turno dopo a 18,29, per una doppia parentesi di grazia strabiliante, come in un inno spesso cantato nelle chiese britanniche.
Jonathan ha vissuto e vive quel che, con uno slogan sbrigativo, può esser definita un’esistenza da Slam, nel senso che molto ha inseguito e tutto ha raggiunto: figlio di un pastore della Chiesa Bassa, aveva una fede incrollabile che lo consigliava di non gareggiare di domenica, il giorno del Signore, e nel tempo ha abbandonato questa dimensione per assumere convinzioni che lui stesso ha definito darwiniane, forza anche di studi di biologia e genetica sostenuti in gioventù: ha deciso di prestare la sua presenza e la sua mente agile alla Bbc e mai lo ha fatto da seconda voce o da inamidato commentatore tecnico preferendo frequentare boccaporti e dopo-gara per interviste vivaci, non sempre legate al suo sport di provenienza, e imboccando la via di programmi culturali, come una serie di documentari sulle cattedrali gotiche francesi; è stato uno dei non moltissimi atleti britannici a completare il percorso netto Europei-Mondiali-Olimpiadi-Giochi del Commonwealth; sospinto da un vento oltre la norma, è stato capace di raggiungere uno stordente 18,43 e mai come quel giorno quella regola che sopprimeva un capolavoro è sembrata assurdamente draconiana, iconoclasta: è stato una delle glorie che, rimboccate le maniche, hanno portato avanti e partecipato alla costruzione di Londra 2012.
In breve, è stato uno di quei campioni che è agevole definire sintesi di perfezione tecnica e di contenuti assoluti, intellettuali, morali, analitici. Sufficiente riflettere un attimo per rendersi conto che non sono stati molti.
Giorgio Cimbrico
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