Un giorno, un'impresa

07 Maggio 2013

Appuntamento quotidiano con le storie dell'atletica

7 maggio. William “Bill” Welles Hoyt, data di nascita 1875, è uno degli studenti americani di buona famiglia (naturalmente tutti del New England) che decidono di passare una primavera diversa ad Atene che organizza una faccenda piuttosto eccitante: i Giochi Olimpici. Racconta un testimone diretto che quando i bostoniani approdarono al Pireo, furono accolti con tutti gli onori e portati a un banchetto dove furono consumate grandi quantità di vino bianco, il famigerato retsina.

Hoyt entra in scena per le batterie dei 110hs, guadagna l’ingresso in finale ma dichiara subito che non prenderà il via. Preferisce giocare le sue chance nel salto con l’asta. Con lui si schiera anche un altro americano, Albert Tyler, e insieme decidono di non entrare in gara sino a 2,70, la quota che costa l’eliminazione agli altri concorrenti, tre greci. Nel faccia a faccia Hoyt ha la meglio su Tyler, 3,30 a 3.20, e antiche cronache raccontano che, andando le cose per le lunghe, i tre ellenici con spiccato senso dell’ospitalità, rifornirono di bevande calde gli sfidanti.

Come altre prestazioni fornite da vincitori dell’Olimpiade appena rinata grazie all’entusiasmo di de Coubertin, anche il 3,30 di Hoyt non può essere considerato un vertice anche in tempi abbastanza confusi per l’attribuzione certa del record del mondo: Wallechinsky, formidabile analista, parla di un 3,49 di Walter Rodenbaugh; il sacro testo della iaaf sostiene fosse il 3,58 del britannico Richard Dickinson, adepto della tecnica dell’arrampicata. Hoyt, scomparso a Cambridge americana nel ’54, sopravvisse quasi sessant’anni al suo giovanile exploit.

Giorgio Cimbrico



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