Un giorno, un'impresa

06 Maggio 2013

Appuntamento quotidiano con le storie dell'atletica

6 maggio. Roger Bannister è l’uomo che riuscì nell’impresa paragonata al passaggio di un promontorio spietato e, per i più dotati di immaginazione o di una infarinatura di cultura classica, all’approdo al di là del mistero delle colonne d’Ercole: un miglio percorso sotto i 4’. La portata dell’evento fu tale che, malgrado il regno di Bannister non sia durato più di 46 giorni, quel record ha diritto di cittadinanza nel territorio delle imprese, come l’8.90 di Bob Beamon o, pescando ancora più indietro nel tempo, nel primo 2,00, concesso da George Horine nell’annata 1912.

Il miglio inglese equivale a 1609 metri e 36 centimetri, per i britannici è la “Distanza” per chi nella corsa intenda coniugare resistenza e velocità. I professionisti dell’età vittoriana, capaci di radunare grandi folle e un forte monte di scommesse, la privilegiavano. Il primo record mondiale riconosciuto venne in fondo a una sfida tra Charles Westhall, William Jackson e George Seward il 26 luglio 1852, nel quartiere londinese di Islington, su una pista ridotta a mal partito dalle forti piogge. Il cronometraggio artigianale segnala per Westhall  “un quattro minuti e mezzo meno qualcosa” aggiustato in 4’28” e capostipite nella progressione del record. L’abissale differenza tra professionisti e dilettanti è affidata al comandante Marshall (nome di battesimo non pervenuto…) che il 2 settembre dello stesso anno, sulla pista del collegio militare di Addiscombe, chiuse la sua fatica in 4’52”.

Dopo aver dominato i primordi, i britannici e gli atleti dell’Impero persero il monopolio, a vantaggio degli americani e, negli anni della seconda guerra mondiale e della ricostruzione, dei “neutrali” svedesi che con Gunder Haegg e Arne Andersson, in sei successivi capitoli, portarono il miglio vicino alla fatidica soglia. Quando Bannister decise di provare, il record mondiale era il 4’01”4 che Haegg aveva centrato il 17 luglio 1945 sulla pista di Malmoe. Bannister aveva 25 anni, era nato nell’elegante Harrow, sede di una scuola preparatoria per le grandi università, aveva parzialmente fallito ai Giochi di Helsinki (quarto, dietro al sorprendente pelatino lussemburghese Barthel, all’americano McMillen e al tedesco Lueg) ed era vicino ad ultimare gli studi in medicina che gli avrebbero aperto una brillante carriera nel campo della neurologia. Era allenato da un oriundo austriaco, Franz Stampfl, e aveva eccellenti amici in Chris Chataway, lo sfortunato protagonista dei 5000 olimpici di Helsinki, e in Chris Brasher che avrebbe conquistato l’oro dei 3000 siepi ai Giochi di Melbourne. Furono loro a dargli una robusta mano nel suo giorno dei giorni, il 6 maggio 1954 sulla pista di Iffley Road, a Oxford, quando Roger, dopo essersi concesso cinque giorni di assoluto riposo, vinse una piccola tempesta del dubbio (“il vento soffiava molto forte e temevo mi avrebbe ostacolato: per fortuna, sul far della sera, diminuì e decisi di provare”) e, attorno alle sei pomeridiane, si allineò alla partenza.

Brasher si incaricò di tirare per le prime 880 yards che Bannister passò in un perfetto 1’58”2; Chataway lo rilevò sino ai tre quarti (3’00”5) che risultarono non velocissimi, obbligando Roger a un ultimo giro sotto i 60” per mettere i piedi nella storia. Di quell’arrivo esiste una foto che ha la forza di un grande quadro storico, popolato di una folla di personaggi: Bannister è al centro della tela, capo all’indietro, trasfigurato, immerso nello sforzo finale, un giudice, pipa in bocca, annota compunto, un cronometrista si copre il volto e scoppia in lacrime premendo il bottone che blocca le lancette, i compagni di corso, sullo sfondo, corrono sul prato, gli occhi eccitati. Defilato, anche Harold Abrahams che di Bannister era diventato amico e mentore e l’aveva ospitato nella sua casa di campagna.

In un’età che non prevedeva tabelloni luminosi e comunicazioni rapidissime, si trattava di attendere il verdetto. Venne per bocca di Norris McWhirter e servì ad alimentare un certo stereotipo di formalismo britannico, unito a un sottile amore per la suspence: “Signore e signori, questo è il risultato della gara numero 9, il miglio: primo, il numero 41, Roger G. Bannister dell’Amateur Athletic Association e già studente dei college Exeter e Merton, con un tempo che  rappresenta un nuovo record della pista e del meeting e che, dopo esser stato sottoposto a ratifica, sarà un nuovo record inglese, britannico, su suolo britannico, europeo, dell’Impero britannico e del mondo. Il tempo è 3’…” Il ruggito della folla coprì il numero dei secondi e dei decimi impiegati, disperse per un lungo attimo l’ufficialità di quel 3’59”4. “Tre” significava l’atterraggio nel nuovo mondo, il piede posato in una dimensione sognata, irraggiungibile .

Il 21 giugno, a Turku, luogo natale di Paavo Nurmi, l’australiano John Landy corse in 3’57”9: cancellò un record, non il Record. Bannister avrebbe fatto giustizia il mese successivo ai Giochi del Commonwealth di Vancouver, piegando l’australiano in fondo al primo duello che ricevette forte supporto mediatico. In occasione del 50° anniversario del record (scandito anche dall’emissione di una sterlina commemorativa), un bravo giornalista italiano, Nicola Roggero, riuscì a fissare un appuntamento con sir Roger e, dopo aver percorso al suo fianco la vecchia pista di Iffley Road, gli domandò se non provasse rammarico per quel titolo olimpico che manca nella sua collezione. Bannister fece guizzare lo sguardo: “Giovanotto, ma se avessi vinto una medaglia d’oro, lei sarebbe venuto sin qui e avremmo avuto questa magnifica chiacchierata?” Convivere con il mito si può. Con leggerezza e a lungo.

Giorgio Cimbrico



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