Scatta l'ora dei Trials

25 Giugno 2015

A Eugene i Campionati Nazionali statunitensi, a Kingston quelli giamaicani, ma senza Bolt

di Giorgio Cimbrico

Tra carte selvagge (wild card) che assicurano il posto, mutamenti regolamentari, assenze della penultima e dell’ultima ora, i Trials stanno perdendo quella patina di ferocia, di imprevedibilità che ne ha marchiato a fuoco la storia, trasformandoli in una delle tante e eterne “frontiere” di cui è disseminata la storia americana. Nello spazio e nella sua conquista JFK ne individuò un’ennesima. Le selezioni erano il luogo in cui molte ali, come quelle di Icaro, si sono bruciate al calore dell’agonismo, del faccia a faccia, dell’emozione che può travolgere, dove qualcuno ha trovato il clima giusto, conquistando un posto al sole e in squadra, dove, ancora, l’attesa dei suiveur più fedeli e appassionati era ripagata da una massa di risultati che, in tempi di comunicazione ancora ben lontani dall’immediatezza odierna, veniva spillata lentamente, come le carte del poker, alla ricerca di nuovi nomi, di tempi e misure a sensazione, di cadute fragorose, di nascite improvvise, di maturazioni fulminee, di verdetti clamorosi.

Dopo quasi 70 anni tiene sempre banco il caso di Harrison Dillard che non ebbe accesso a uno dei posti nei “suoi” 110hs e a Londra ’48 riuscì ad andare per vincere i 100, di un soffio su Barney Ewell e grazie al primo photofinish della storia, e finì per portare a casa anche l’oro della 4x100. Harrison è ancora vivo, viaggia per i 92 anni e ne avrebbe da raccontare su quei Trials maledetti e benedetti che lo hanno reso un simbolo, il protagonista di una storia memorabile e molto americana, esemplare: lo sconfitto che sa trasformarsi in trionfatore.

Chi ha assaggiato i Trials, sa come battersi nella vita: basta andare al cinema per la storia di Louis Zamperini, girata da Angelina Jolie: da perfetto sconosciuto la conquista del viaggio a Berlino, la finale dei 5000 corsa sotto gli occhi di Hitler, la guerra, l’aereo che ammara nel Pacifico, un calvario da Zattera della Medusa, il campo di prigionia, le brutalità dei giapponesi. La resa, mai.

Oggi le selezioni, almeno per i big in possesso di salvacondotti conquistati grazie a successi già maturati (non solo il titolo mondiale conta, ma anche la vittoria nella Diamond League), sono momenti in cui il rischio non è una corrente ad alta tensione, da cavalcare per non essere fulminati. Belle gare, in un ambiente ideale (Eugene è diventata Tracktown, la città della pista, la mecca), per dimostrare la vitalità di un movimento che ancor oggi sa creare ostacoliste vicine ai prodigi bulgari di trent’anni fa, bambine volanti, ragazzi capaci di volare sulle ali di un vento che da quelle parti può esser forte o fragoroso. Ma il vecchio fascino, l’antico rigore sembrano perduti per sempre, come il leopardo che si smarrì sul Kilimanjaro.

Un post scriptum può riguardare altri Trials, quelli giamaicani, e la rinuncia di Usain Bolt, il Lampo non più accecante, il semidio tornato umano non per una decisione della corte degli dei che sull’Olimpo si divertono intervenendo – con bonarietà e malizia – sulle vicende degli uomini, ma per un motivo meno mitologico o poetico o immaginifico: il tempo è il più severo dei maestri e Usain, a 29 anni, ha un’anzianità di servizio che sprofonda alla sua adolescenza fulminea. Forse fermarsi e raccogliere quel che ancora può essere spremuto è stata la decisione giusta prima di provare a volare nel Nido d’Uccello dove tutto cominciò. Forse.

TRIALS USA (Eugene) - START-LISTS

TRIALS GIAMAICA (Kingston) - START-LIST / LIVE RESULTS



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