Ritorno a Glasgow: quando nel 1990...

25 Febbraio 2019

L'oro di Floris nei 200, la volata d'argento di Pavoni, le medaglie nella marcia. Ventinove anni dopo la città scozzese riabbraccia gli Euroindoor

di Giorgio Cimbrico

La Kelvin Hall di Glasgow rimarrà un posto molto speciale per Sandro Floris, cagliaritano, 54 anni nel giugno che verrà, nato sotto il segno geniale e balzano dei Gemelli. Su una pista che non concede acuti cronometrici Sandro catturò il titolo dei 200 (oggi spariti dal programma) in 21.01, tre centesimi davanti al bulgaro Nikolai Antonov. Ma è il nome di chi completa il novero dei medagliati a dar spessore all’impresa del sardo. È Bruno Marie Rose che tre anni prima, sulla pista-trampolino di Lievin, era stato autore di un colpo d’ala: record mondiale portato di forza a 20.36, davanti al sovietico Vladimir Krylov e al britannico John Regis, dalla struttura di frigorifero. L’anello nella località del Pas de Calais aveva caratteristiche fatate: l’unico tempo sub-20, 19.92 di Frankie Fredericks, è arrivato in quella cittadina dal passato minerario.

Marie Rose e Floris si sarebbero ritrovati di lì a qualche mese sulla pista di San Antonio di Poljud, sobborgo di Spalato in una giornata fausta per l’atletica francese: una formazione europea tornava a impadronirsi del record del mondo, 37.79, a oltre un quarto di secolo da un altro acuto di una squadra francese dei primi anni Sessanta. Era il 1° settembre 1990 e l’Italia (Longo-Floris-Madonia-Tilli) finì terza in 38.39. Floris avebbe frequentato un altro podio europeo, con la staffetta a Helsinki 1994, e uno mondiale, a Goteborg, un anno dopo.

A quasi trent’anni di distanza l’Euroindoor nella città passata da un rinnovamento urbano all’altro, ricca di passione calcistica e in parte convertita a quella ovale, riporta il ricordo di una delle ultime volate di armonica violenza offerte da Pierfrancesco Pavoni, capace di tenere il passo e di cedere per tre centesimi (6.56 a 6.59) a chi stava per conquistare il titolo di “nonno del vento”: Linford Christie. Pavoni, argento europeo all’aperto ad Atene a 19 anni, a un soffio da Frank Emmelmann, rimane l’unico azzurro ad aver centrato la finale mondiale su entrambe le distanze.

Il raccolto azzurro venne completato dalla marcia, allora parte del programma della rassegna: Giovanni De Benedictis, filiforme come una statua di Alberto Giacometti, cedette per 2 secondi al sovietico Mikhial Shchennikov, dotato di un problematico, per non dire sospetto, assetto. Ileana Salvador e Anna Rita Sidoti occuparono il podio alle spalle della tedesca Beate Anders. Un segno che il successo spalatino della povera Anna Rita non costituì una sorpresa assoluta, né un’improvvisa comparsa dall’anonimato.

Rileggere i nomi (non solo degli atleti, ma anche dei paesi) di quell’edizione scozzese è piombare in un mare di ricordi, di generazioni lontane, di canti del cigno: Galina Chistyakova, russa d’Asia, fece doppietta nel lungo e nel triplo (per la prima volta inserito nel programma ufficiale); Thierry Vigneron rimediò ancora un posto sul podio nella gara vinta dal potente uzbeko, allora Urss, Rodion Gataullin con 5,80; il calligrafico Tom McKean si prese una tardiva e molto parziale rivincita della finale mondiale di Roma ’87 e il nasuto Ddr Jens Peter Herold si lasciò alle spalle Fermin Cacho che due anni e mezzo dopo, in fondo a una tumultuosa volata, sarebbe diventato il campione olimpico dei 1500 sulla collina di Montjuic.

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