Pietro Mennea. La storia di un uomo, di un record, di un oro olimpico. di Guido Lai



Pietro Mennea. Non v’è dubbio che questo grande campione ha lasciato nella storia dell’atletica italiana e mondiale un segno indelebile del suo passaggio non solo grazie alla sua serietà, onestà sportiva ed intellettuale ma anche e soprattutto grazie a quel 19”72, primato mondiale della specialità dei 200 metri, che ha realizzato a Città del Messico il 12 settembre del 1979 demolendo il precedente primato di 19”83 che apparteneva all’americano Tommie Smith, realizzato, sempre a Città del Messico, il 16 ottobre del 1968. Il record di Mennea è rimasto imbattuto per ben 17 anni fino al 19”66 realizzato da Michael Johnson ad Atlanta il 23 giugno del 1996. Ed è giusto che si renda omaggio alla “Freccia del Sud” così come molti lo conoscevano in omaggio alle sue radici meridionali che videro in Barletta, città pugliese storicamente famosa per la sua “Disfida”, dargli i natali il 28 giugno del 1952. Un atleta, Pietro Mennea, di umili origini, schivo e riservato. Suo padre, sarto, gli creò i suoi primi pantaloncini da corsa e gli comprò le scarpe da gara di una misura superiore perché allora non esisteva né la posturologia e né la riflessologia plantare e comprare un paio di scarpe chiodate costava notevoli sacrifici e soprattutto dovevano durarti. Ma lui, Pietro Mennea era un campione. E come un campione usava presentarsi al traguardo con quella espressione di rabbia, forza e decisione espressi così bene dai muscoli del collo, tesi come elastici, da quegli occhi sgranati quasi a voler incenerire quel traguardo e con quel braccio ed indice sollevato come a brandire una spada. Un “adrenaline rush”, così ben immortalata in centinaia di scatti che hanno fatto il giro del mondo. La storia della vita di questo grande campione è veramente vasta. Unico duecentista a qualificarsi per ben quattro finali olimpiche, conquistò il suo unico oro olimpico a Mosca nel 1980, nel grande Stadio Lenin, durante i giochi della XXII Olimpiade boicottate dagli USA per l’invasione sovietica dell'Afghanistan. Pietro Mennea definiva ogni corsa un “viaggio” e prima di ogni gara si domandava “ho preso tutto?”. In particolare a Mosca quel 28 luglio del 1980 guardò il britannico Wells ed il jamaicano Quarrie e si rese conto di avere tutto. Pettorale 433, 8 corsia per lui e una partenza non proprio felice. Ecco come racconta la sua impresa “All’uscita della curva ero penultimo, Wells indemoniato era tre metri avanti. Ho pensato: non avrò altre occasioni. Dodici anni di lavoro e di dolore per niente. Allora riparto, risento tutto, rientro in gara, recupero, vinco, alzo le braccia e il ditino”. Una rimonta che ancora oggi, a rivedere quelle immagini fa veramente emozionare. Poi l’arrivo conquistando per se stesso e per l’Italia una medaglia d’oro fermando il tempo a 20”19, che gli ha consentito di entrare nella memoria collettiva di tutti gli sportivi italiani e non. In quella occasione oltre l’oro Pietro Mennea guadagnò un premio da otto milioni di lire che come lui stesso racconta, investì nell’acquisto di sei poltrone Frau. In una articolo/intervista rilasciata ad Emanuela Audisio di Repubblica il 3 giugno 2012 dal titolo “Per battere il tempo devi soffrire”Pietro Mennea racconta la storia del suo record del mondo realizzato a Città del Messico il 12 settembre del 1979. Era l’anno in cui Jannacci cantava “Messico e Nuvole”. Mennea allora aveva 27 anni e partecipava alle Universiadi. Per la sua gara, i 200 metri, gli era stata assegnata la corsia 4. La pista era vecchia e consumata. Inoltre nei giorni precedenti era comparsa nei tabelloni la scritta “Petro Menea”, il suo nome storpiato, errata anche la nazionalità, francese. Racconta “ Ero alla ricerca di un tempo, troppe volte perduto. Pensai fosse la volta buona. Remai un po’ in curva, controllai la sbandata all’entrata del rettilineo, non smisi di spingere, stavo andando a trentasei chilometri all’ora con le mie gambe. Corsi i primi cento in 10’’34 e i secondi in 9’’38. Arrivai con sei metri di vantaggio. Il pubblico urlò, ma io non ero sicuro della vittoria, ero confuso. Non c’erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. l’unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, 19”72 e subito pensai che forse avevano sbagliato anno? Eravamo nel ’79 non nel ’72, mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione, non riuscivo più a respirare. La gioia fu immensa”. Mennea si laureò l’uomo più veloce del mondo infrangendo quel monopolio che voleva solo gli atleti di colore americani, grazie alla loro altezza e prestanza muscolare, realizzare al meglio questa tipologia di “performance”. Ricorda Pietro Mennea “Ero in forma, affrontavo tutti, battevo gli americani, che fisicamente erano il doppio di me. A Viareggio sui 200 Williams mi passò: avevo le sue ginocchia all’altezza del mio mento.” Bellissimo il ricordo dell’incontro con Cassius Clay – come egli stesso racconta - “In California incontrai Muhammad Ali che per me è sempre stato Cassius Clay. Mi presentarono come l’uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso e mi disse: “Ma tu sei bianco”. Sì, ma sono nero dentro. “ . Si dice che si rifiutò di partecipare alla “Domenica Sportiva” in quanto ormai stanco di raccontare sempre la storia della sua epica impresa. A tre anni dal suo oro olimpico ed esattamente il 29 settembre 1983, Pietro Mennea partecipò a Cagliari ad un Meeting Internazionale di atletica leggera correndo nella staffetta 4x200 insieme a Stefano Tilli, Carlo Simionato, Giovanni Bongiorni, vincendo la sua gara con il tempo di 1’21”10. Pietro Mennea era famoso perché codificava sempre le sue fatiche. A Formia era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo a lasciare il Centro. Ed a proposito del doping lui stesso racconta che, invitato ad un convegno in Germania e parlando dei suoi carichi di lavoro indicò le serie della sua preparazione giornaliera: 25 volte i 60 metri, 10 volte i 150 metri. I Tecnici presenti sbigottiti dissero che al massimo i loro atleti facevano 6 volte i 150 metri. E lì per Pietro Mennea ci fu la conferma che il doping aveva vinto non riuscendo a capire per quale motivo quegli atleti riuscivano ad ottenere prestazioni migliori delle sue allenandosi tre volte meno di lui. E quando il Prof. Vittori, grande preparatore atletico, descriveva nei convegni i programmi di lavoro giornalieri i tecnici gli chiedevano: “Scusi Professore ma chi ha fatto queste cose poi è morto?”. Nella sua lunga carriera Pietro Mennea è stato 3 volte campione nazionale nei 100 metri piani (1974, 1978, 1980); 11 volte campione nazionale nei 200 metri piani (1971, 1972, 1973, 1974, 1976, 1977, 1978, 1979, 1980, 1983, 1984); e 1 volta campione nazionale nella staffetta 4x100 (1974). Ma Pietro Mennea non era solo un uomo di sport ma anche uomo di cultura. Ha conseguito cinque lauree: Isef, scienze motorie, giurisprudenza, scienze politiche e lettere. Ha scritto molti saggi e libri tra i quali “La Corsa non finisce mai” e “Inseguendo Bolt lungo un percorso che conosco” scritti insieme a Daniele Menarini. Nella sua vita ha lavorato come avvocato, commercialista, revisore contabile, agente di calciatori, giornalista pubblicista, insegnante universitario. Inoltre è stato deputato al Parlamento Europeo dal 1999 al 2004. E’ stato insignito del titolo di Cavaliere e di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana per meriti sportivi. Ed al termine della sua carriera e della sua vita racconta questo aneddoto: “Ogni tanto c’è qualcuno nel parco che mi chiede: e tu che fai? Vorrei avere abbastanza fiato per rispondere: ho già fatto. 5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, più il resto che è tanto. A 60 anni non ho rimpianti Rifarei tutto, anzi di più. E mi allenerei otto ore al giorno. La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni». Ciao Pietro



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