Mosca, il bilancio di Silvaggi:



Il bilancio di fine manifestazione spetta al DT Nicola Silvaggi. Che, ovviamente, non si tira indietro: “Antonietta Di Martino, con la sua bellissima gara, ha confermato il fatto che accanto a prestazioni negative abbiamo anche saputo offrire performances di livello. Howe, Giulio Ciotti e la stessa Di Martino sono sicuramente stati all’altezza della situazione, mentre qualcosa in più era lecito attendersi soprattutto da La Mantia, Donato e Gibilisco, che avevano la possibilità di fare una buona figura in questo contesto. Sugli altri non mi pare si possa dire molto: ho visto, ad esempio, uno Scuderi all’altezza del suo limite stagionale, ed una Cusma volitiva, seppure eliminata. Non mi pare si potesse pretendere molto di più da loro in un Mondiale. L’obiettivo stagionale è l’Europeo, i conti si faranno solo dopo Goteborg”. I conti statistici del Mondiale indoor, invece, vanno fatti subito. Nell’ultima edizione, quella di Budapest 2004, mettemmo quattro atleti in finale: Simone Collio nei 60 metri, Giuseppe Gibilisco nell’asta, Fiona May nel lungo, e Magdelin Martinez nel triplo. Due anni dopo, per ragioni diverse (ritiri, infortuni, scelte tecniche) uno solo di questi era presente alla rassegna moscovita, Gibilisco (eliminato in qualificazione). Ma l’Italia ha comunque portato tre azzurri in finale (Howe, Di Martino e Giulio Ciotti), a conferma di quella fase di pieno mutamento nelle squadre nazionali più volte accennato in passato, e del resto già visto a Helsinki (due nomi tra i finalisti outdoor: Schwazer e Bani). E’ una nazionale che cambia le sue pedine, che vede nuovi atleti crescere ed affermarsi, ed altri – vedi il caso della Di Martino – tornare alla ribalta dopo periodi di infortunio. A Mosca, poi, è arrivata la medaglia di un convincente Andrew Howe, un fatto da non sottovalutare: non salivamo sul podio da Lisbona 2001 (oro nel triplo con Paolo Camossi), e nell’ultimo decennio (sei edizioni), oltre all’oro del Goriziano, era arrivata solo un’altra medaglia, sempre d’oro, grazie a Fiona May (nel salto in lungo di Parigi 1996). La classifica per piazzamenti (otto ounti al primo, sette al secondo, e così via), vede l’Italia chiudere con 12 punti, esattamente come a Budapest 2004, e meglio che a Birmingham 2003. Certo non si può dire che le cose siano andate a meraviglia. Si torna dalla Russia con la medaglia di Howe, ma anche con la grana Gibilisco (a breve l’annunciato chiarimento con Vitali Petrov), e con almeno un altro paio di delusioni, figlio soprattutto della differenza tra le prestazioni di ammissione e quelle effettivamente realizzate sul campo. E’ un male antico, tante volte denunciato. I nostri atleti, salvo le ovvie e già citate eccezioni, sembrano sgonfiarsi di fronte agli impegni di rilievo, accusando, alla prova dei fatti, cali di rendimento che appaiono inspiegabili. Di chi, o di cosa, la colpa? La maggior indiziata è la classica “mancanza di esperienza”, che non è un modo di dire, così come non lo era il tragicomico “amalgama” di calcistica memoria (quello che un celebre presidente si offrì di comprare ad un suo allenatore scontento). Il viaggio, lo spostamento, l’attesa in camera d’appello, il timing rigoroso nei concorsi, gli avversari “veri”, le gare difficili da ogni punto di vista, non sono probabilmente fatti abituali per i nostri. Che, soprattutto, non sono abiutati a cimentarsi in campo internazionale – con le ovvie eccezioni, vedi i gemelli Ciotti, per esempio. E’ una questione di mentalità, verrebbe da dire, se non suonasse come l’abusatissima questione politica tirata in ballo ogniqualvolta le risposte si fanno attendere. Marco Sicari Nelle foto, Andrew Howe dopo la premiazione (Giancarlo Colombo per Omega/FIDAL) File allegati:
- Il sito della Federazione mondiale



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