Mondiali: viaggio nel futuro di Bolt

02 Agosto 2017

Alla vigilia della rassegna iridata di Londra (4-13 agosto), proviamo a immaginare come sarà la vita del fulmine giamaicano fra altri trent’anni

di Giorgio Cimbrico

“Il giro comprende la visita al Memoriale di Bob Marley, a seguire quella al National Stadium. Un planter’s punch e uno spuntino prima del trasferimento a Trelawny, dove dovremmo arrivare tra un paio d’ore”. Dopo aver esposto il programma ai sette clienti, la guida sale al volante del van con aria condizionata, frigorifero, un paio di piccoli schermi tv, e mette in moto. Sulla fiancata, una silhouette scura, nella posa dell’arciere, e una scritta gialla e verde: Bolt Holidays. “Un po’ di musica?”, propone Usain ammiccando. “Questi sono successi freschi, tutta roba del 2047”. E così i clienti incassano reggae e calypso. Un britannico avanti con l’età gradirebbe qualcosa di meno martellante ma in Giamaica non si può pretendere di avere un quartetto di Haydn. Abbassa i mezzi occhiali sul naso e sorride.

“Mister Bolt…”, azzarda un americano dal calzino corto e il polpaccio massiccio. “Lascia perdere il mister, amico. Io sono Usain”. “Già, certo. Beh, volevo domandarti come vanno le cose nel tuo settore”. “Dici la Bolt Holidays? Guarda che lo faccio perché mi diverto. Voglio dire che non ho bisogno, che quando trent’anni fa ho smesso, i piedi li avevo già al caldo. Mi sono spiegato? Questo gruppo era piccolo, così sono venuto con il van da nove posti. Ma capita anche che debba tirare fuori il bus e allora a dare una mano vengono anche Yohan e Asafa”.

L’americano è di New York, ha più o meno l’età di Bolt, sui 60, ed era giovanotto quando lo ha visto correre in 9.72 a Randall Island: glielo dice e Usain gli assesta una pacca e fischia tra i denti. Dentro il van l’aria è fresca e l’atmosfera si sta scaldando. Tocca al britannico: “Ti ho visto anch’io ed è stato a Londra. E non solo a Londra”. “Londra, quando?”. “Alle Olimpiadi e poi dopo, trent’anni fa, per l’ultima volta”. “Ehi, amico, ti sono costato un sacco di sterline”. “A dire il vero, no. Facevo il giornalista. Quelli entrano gratis”. “Non sarai mica venuto qui a farmi un’intervista: io ho chiuso”. “No, no, ho chiuso anch’io. Sto provando a scrivere un libro su tutto quello che ha lasciato tracce nella mia vita”. “E io ho lasciato tracce?”. “Sono qui. È una risposta, no?”.

Verso sera, dopo molte curve e molta vegetazione che sgocciola, arrivano a Trelawny. BBUB, Bed and Breakfast Usain Bolt, è scritto sull’insegna dell’edificio basso, in stile coloniale. La casa di Usain è sull’altro lato del prato, stesso stile. La sera è umida, senza vento. “Warren, prepara qualcosa per gli amici”. E Weir, che è diventato mastodontico, si mette a trafficare in cucina: taglia il maiale a cubetti, lo mette a soffriggere, prende un paio di scatole di fagioli. “Per stasera vi accontentate: domani vediamo di rimediare del pesce. La birra è nel frigo”.

Al pesce pensa Yohan che parte la mattina presto. “Ehi, se trovi il barracuda prendilo. Sai che bistecche”, sbraita Usain che in calzoni corti fa ancora la sua dannata figura: quattro, cinque chili in più dei vecchi tempi. Sarebbe il momento della visita. “Fate come a casa vostra”. Usain non è il cicerone di se stesso, dei memorabilia sparsi per il soggiorno: medaglie, foto in cornice. “Quelle in mezzo alla gente sono quelle che preferisco”. Ora è serio, quasi commosso.

Tom, il britannico, tradisce l’impegno. “Perché hai deciso di smettere?”. “Sei mica il primo a volerlo sapere”: ora la luce che viene da fuori balena sui denti forti. “Avevo 31 anni, avevo mal di schiena, non ero più quello di Berlino quando correvo e chiacchieravo con quel tipo vestito da orso. O magari era un orso vero?”. Il sorriso non è caldo. Non gli va di andare sino in fondo.

“Forse è stato perché li sentivi più vicini, perché tutto cominciava a costarti fatica e l’assoluto che avevi espresso si stava allontanando”. “Ehi, amico, ma cosa sei, uno strizzacervelli? Non ne ho mai avuto bisogno e se sapevo che venivi a farmi il terzo grado, ti lasciavo a Kingston a fare le tue riflessioni sotto la mia statua”. “Mi dispiace...”. “Dai che stavo scherzando. Non mi arrabbio mai, io. Non mi sono arrabbiato neanche quella volta in Corea”. “C’ero”. “Ah, c’eri?”. Gli americani tacciono e ascoltano: sembra una favola da ascoltare vicino al fuoco, ma il fuoco non c’è: in Giamaica fa sempre caldo umido.

“Insomma, ho smesso. E ho ancora la testa piena di immagini e di solito sono belle. Ad esempio, sai una cosa che mi ha reso felice? Che a Londra, per la mia ultima volta, i biglietti per i ragazzini costassero 9 sterline e 58 penny. A uno di questi ragazzi ho regalato la maglia che portavo quella sera in cambio di uno di quei biglietti. Lo volete vedere? Quello non è mica esposto con le altre cianfrusaglie. È qui, nel portafoglio”. Tom era là, all’Olympiastadion, quasi quarant’anni prima. Mai più nessuno gli ha regato un’emozione simile, mai più nessuno ha corso così veloce.

Usain apre il portafoglio, estrae il vecchio biglietto appena minacciato dall’ingiallimento, incassa la testa nelle spalle, scaccia la malinconia, mette un ginocchio sul tappeto e fa il gesto dell’arciere. “Usain, Usain, ho trovato il pesce”, grida Yohan da fuori.

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