Mimoun e El Ouafi, campioni di Francia

16 Novembre 2015

La storia dei due atleti di origine algerina con un passato attraversato dalla guerra che raggiunsero il traguardo dell'oro olimpico di maratona con la maglia della Francia

di Giorgio Cimbrico

“Io spero in Dio”, scriveva accanto al suo autografo Alain Mimoun, sorridendo sotto i baffi che erano due tratti sottili. Sino all’ultimo fu vivace come un gas esilarante, come una cascata di impazzite gocce di mercurio. Nel 2003, superati gli 80 anni, offrì un giro di corsa sulla pista di St Denis, commuovendo chi assiepava lo Stade de France la sera in cui si aprirono i Mondiali. I vecchi lo conoscevano e non lo avevano dimenticato, i giovani scoprirono l’algerino di Francia, il soldato, l’eterno secondo alle spalle di Emil Zatopek, il vincitore della maratona di Melbourne che attese l’amico-rivale, al traguardo a 4’ da lui, stravolto. “Non ti congratuli con il campione olimpico?”, domandò Alain a chi difendeva la corona. E Emil trovò le ultime energie per un abbraccio fraterno.

In questi giorni di tenebra, raggi di luce possono arrivare dai due francesi campioni olimpici di maratona: Alain nel ’56 e, ventotto anni prima ad Amsterdam, Boughéra El Ouafi, l’uno e l’altro figli d’Algeria, gli africani che conquistarono il massimo che poteva essere conquistato portando addosso il Galletto. E quando Boughera cadde nell’oblio e nella miseria, fu proprio Alain – nato Alì - che si diede da fare per un riconoscimento, per un aiuto, per la restituzione della dignità al vecchio campione.

L’uno e l’altro scoprirono la corsa durante il servizio militare. Boughera era del ’98, finì in un reggimento coloniale di fucilieri, il 25°, conobbe il fronte e dopo l’armistizio finì nella zona smilitarizzata della Germania, in Renania. Fu allora che venne notato dal suo tenente e spedito a difendere l’onore del reparto in una prova di lunga lena. Nel 1924, alle Olimpiadi parigine, sui 42 km che vennero cosi alla vigilia della festa nazionale e che videro la vittoria del finlandese Albin Stenroos, finisce settimo. Quattro anni dopo, a Amsterdam, ormai trentenne, non gode dello straccio di un pronostico. Ma a vincere è lui, in fondo a una corsa tatticamente perfetta in cui raccoglie uno dopo l’altro chi si era lanciato in velleitarie avventure. E’ operaio alla Renault, in quella banlieue parigina che si sta allargando a vista d’occhio, e quando gli offrono la possibilità di passare l’Atlantico e di mettere assieme qualche soldo in gare contro vecchi campioni e in sfide circensi, accetta. Come era capitato vent’anni prima a Dorando Pietri, verrà squalificato per professionismo.

Anche Mimoun, nato nel ’21, ha un passato attraversato dalla guerra, l’altra: travolto nel crollo della Francia nella primavera del 1940, inizia a correre quando il suo reparto trova rifugio a Bourg en Bresse. Da lì, la sorte lo porta prima in Tunisia per gli ultimi scontri con l’Afrika Korps in ritirata e verso la rotta, poi in Italia, con il corpo di spedizione francese delle truppe gaulliste, per la lunga risalita della penisola. Ferito a un piede, rischia ed evita l’amputazione. Lui spera sempre in Dio che spesso gli è al fianco.

Tre volte secondo ai Giochi, due agli Europei, diventa uno dei personaggi di una delle più drammatiche foto della storia olimpica, l’arrivo dei 5000 di Helsinki, una lotta selvaggia che Zatopek risolve negli ultimi ottanta metri. Le speranze si affievoliscono ma non spariscono: a quasi 36 anni, in una giornata torrida degli antipodi, Mimoun centra il bersaglio grosso. “La mia carriera assomiglia a un castello: a Londra l’ho fondato, a Helsinki ho costruito le mura, a Melbourne sono arrivato al tetto”. Quando tornò a Parigi, venne ricevuto dal suo vecchio comandante, il generale De Gaulle: “Io e lei abbiamo qualcosa in comune: sappiamo resistere”.

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