La scintilla della rivalità

03 Agosto 2015

di Giorgio Cimbrico

La rivalità accende fiamme, allarga orizzonti. La più grande di tutte, Coe contro Ovett, produsse tre ori olimpici e, per dirla come John Reed, i giorni che sconvolsero il miglio. Indicazione essenziale: meglio che i rivali non siano amici, che non esibiscano troppa cordialità. E’ sufficiente la stima. Che stimola.

Le duellanti del pieno degli anni Trenta venivano dalla stessa città, Bologna: Testoni aveva un bel nome, Claudia; Valla ne aveva ricevuto in sorte uno molto impegnativo, Trebisonda, ma per clemenza tutti la chiamavano Ondina. A lei toccò, in fondo a uno degli arrivi più serrati della storia, scandito dai millesimi, la medaglia d’oro di Berlino. Con lo stesso tempo decimale, 11”7, Claudia finì quarta e qui nasce una disputa storica, spruzzata di interrogativi, di dubbi: è vero che da quel momento, il 6 agosto 1936, Claudia negò il saluto a Ondina? C’è chi lo sostiene, così come c’è chi è pronto a testimoniare che amiche erano e amiche rimasero.

Il titolo europeo del ’38 conquistato a Vienna da Claudia servì per rasserenare lo scenario.

Un gioco delle coppie ha scandito generazioni di discoboli: per il periodo in cui andò in scena, Consolini-Tosi ha forti assonanze con Coppi-Bartali, ma anche con profonde diversità: la maglia rosa, la maglia gialla erano sempre indossate da Adolfo da Costermano che ebbe anche il tempo di apparire sugli schermi, ardito del popolo destinato a una fine drammatica in “Cronache di poveri amanti”. Giuseppe, nativo di Borgo Ticino (e secondo Gianni Brera ligure di purissima razza, così come Mario Lanzi), per tutti Beppone, ribattezzato anche Porthos, corazziere del Regio Esercito e più tardi della giovane Repubblica, seppe salutare con un sincero sorriso la catena di sconfitte (argento olimpico, tre volte secondo agli Europei, due mesi da primatista italiano, nell’estate del ‘48) a cui andò incontro affrontando l’Ercole gardesano dalla voce sottile: tutto sommato, non era male venir dietro a tale prodigio naturale, offerto da un’Italia contadina. Rustica, come amava dire Pasolini. E poi, sempre in tema di favole di giganti, toccò a Simeon-De Vincentiis: Silvano, con le sue braccia tentacolari, le mani sensibili come quelle di una ricamatrice, rapito cinque anni fa lasciando tutti in un dolore sbigottito, e Armando, con quella magnifica testa da generale romano, da imperatore.

Un busto di Settimio Severo assomiglia, in modo impressionante, all’ascolano.

Al tempo in cui gli ostacoli alti e bassi erano feudo azzurro, Salvatore Morale, per tutti Tito, trovò sulla sua strada un avversario che sarebbe diventato una presenza costante nella sua esistenza, Roberto Frinolli: se il padovano sposò Anna Beneck, il romano della Garbatella si unì a Daniela. Il 16 ottobre 1964 li trovò uno contro l’altro, sulla pista di Tokyo, finale dei 400hs dominata da Rex Cawley: Tito fu terzo, spalla a spalla con i britannico John Cooper, destinato a scomparire dieci anni in un disastro aereo in Francia. Roberto finì sesto, iniziando in quel momento il suo inseguimento ai Giochi messicani che lo videro problematico protagonista: il n. 1 in semifinale, in 49”14, e ottavo nella storica finale dell’altrettanto storico record mondiale di David Hemery, detto Drake. Il titolo del Corriere dello Sport “Frinolli Ultimo”, lo indispettì e, da persona educata e compita quale sempre è stato, al ritorno a Roma ne chiese spiegazione al direttore Antonio Ghirelli. Con abilità tutta partenopea Ghirelli non fece fatica a ribattere che quelle due parole mimetizzavano una dichiarazione di stima. Praticamente andavano tradotte così: ma se Frinolli è finito ultimo, che gara è stata?

Sulle distanze brividi caldi, vecchi ormai trent’anni, vennero regalati da Cova-Mei, l’uomo della triplice corona contro il purosangue che voleva il Derby. Ne ebbe a disposizione uno così grande che ancora oggi non è stato dimenticato: 25 giri sulla pista del Neckarstadion di Stoccarda. “Mei-Cova-Antibo, è tutto uno scintillio di azzurro”, smarrì il suo elegante aplomb Paolo Rosi quando la volata era stata lanciato e il cambio di Stefano risultò fatale per Alberto, sino a quel momento perfetto nel ruolo dell’implacabile giustiziere.

In giorni ruggenti di Tamberi versus Fassinotti, il salto in alto permette tuffi nel passato per ritrovare una rivalità multipla, a triangolo che il 19 settembre produsse il triplo 2,27 bolognese del ragionier Oscar Raise e dei furlan Massimo Di Giorgio e Bruno Bruni. Qualche mese dopo, un marchigiano deciso, sicuro di sé, avrebbe saltato 2,26. Si chiamava Marco Tamberi.


Stefano Mei e Alberto Cova (archivio FIDAL)


Condividi con
Seguici su: