L'impresa mondiale di Camossi

04 Marzo 2014

Nuovo capitolo del racconto delle precedenti edizioni della rassegna iridata in sala che nel 2001 a Lisbona ha portato al successo il triplista azzurro davanti alla "leggenda" Jonathan Edwards

di Giorgio Cimbrico

Il 9 marzo 2001 Paolo Camossi visse un’Odissea nella gioia che neppure Stanley Kubrick avrebbe saputo girare in maniera così compiuta, perfetta, coinvolgente. Gli capitò di battere il più grande e di ricevere i più sinceri complimenti. Perché il più grande era anche un perfetto gentiluomo e molte altre cose ancora. Era Jonathan Edwards che nel ’95, quando a Goteborg, in una giornata di grazia e perfezione, approdò a 18,29, sessanta piedi, aveva due metri abbondanti di vantaggio sul goriziano cresciuto in provincia di Alessandria, e che nel padiglione dell’Expo, in una Lisbona nord avvenieristica, lontana dai soliti clichés, si ritrovò dietro. E qualcuno scomodò un capolavoro di John Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance. Qui niente spari, solo appoggi, stacchi, ricadute, atterraggi.

Meno di sei prima, a Sydney, Jonathan aveva aggiunto quel che mancava al mosaico della sua perfezione: il titolo olimpico che gli era sfuggito ad Atlanta quando Kenny Harrison aveva toccato quel muro precluso agli altri mortali. Nella finale australiana Paolo aveva conquistato un ruolo da comprimario: ottavo, alle soglie dei 17 metri. Poteva considerare l’annata positiva: a giugno, all’Arena, si era spinto a 17,45 nella serata che aveva proiettato Fabrizio Donato a 17,60.
Lisbona, dunque, a un’ora insolita, le 11,30 del mattino, finale diretta, senza qualificazioni. Alla fine della prima smazzata, Paolo è secondo con 16,97. Jonathan ha saltato 17,06. Comincia a farsi strada l’idea – o la speranza? – che la gara possa esser giocata sul filo dell’equilibrio.


Edwards allunga a 17,12, il tedesco Charles Friedek risponde con 17,11 e passa la boa di metà gara in testa con 17,13. Il quarto turno è il momento della svolta: l’australiano Andrew Murphy, canguro in tutti i sensi, prende la testa con 17,15, Paolo trova l’ispirazione e va diritto a 17,32, record italiano al coperto, Edwards replica a 17,12, Friedek non trova l’asse, esce dal podio e non rientrerà più nel giro delle medaglie.

Alla quinta tornata, niente da segnalare e a questo punto chi ha ancora munizioni è meglio che le metta nel tamburo. Murphy mette paura a tutti: 17,20, record dell’Oceania rinverdendo una tradizione che aveva avuto in Ken lorraway un grande interprete. Per Camossi il tabellone dice 16,87. Tocca a Edwards: hop, step and jump con la solita azione radente. Lungo, non lunghissimo: 17,26. E’ il momento delle strette di mano. Una gli viene allungata da Donato che naturalmente c’è e finisce sesto con 16,77. Fabrizio è sempre così puntualmente presente in queste cronache da domandarsi se abbia circa ottant’anni e sia splendidamente conservato. Tutto finito. Paolo è felice senza isterie.


Sa di aver combinato una faccenda da raccontare ai figli, da far annoiare i nipoti: “Ehi, il nonno ha di nuovo tirato fuori la storia di quando ha battuto quell’inglese”.

Lisbona non è altrettanto allegra (triste come un fado, avrebbe scritto chi ama l’effettaccio/effettino…) per Fiona May: fuori dal podio, quarta, nella gara che vede Dawn Burrell oltre i 7 metri, fregata di un centimetro all’ultimo salto da Niurka ntalvo, l’ispano-cubana che aveva acceso l‘ira di Fiona a Siviglia mondiale per quel salto decisivo che non si è mai capito se era buono o nullo. Per i giudici spagnoli, buono. Due anni dopo, all’Arena di Birmingham, remake di Maebashi: Italia non pervenuta nel medagliere. Ma spunti a bizzeffe. Ad esempio, compare una ragazza di Volgograd con un paio di enormi occhi blu e finisce seconda nell’asta, dietro a quel monello di Svetlana Feofanova che firma il record mondiale a 4,80 e pensa di poter tenere la corona a lungo. Si sbaglia: la tipa con gli occhioni blu che salta 4,60 è Yelena Isinbaeva, detta Lena: da giovane granduchessa a zarina il passo sarà breve. Gli svedesi fanno man bassa (quattro titoli) e Christian Olsson è da scintille: 17,70. Dietro a Justin Gatlin, nei 60, c’è Kim Collins, un magroletto che viene da St Kitts e che un pugno di mesi dopo a Parigi diventerà campione mondiale dei 100 in fondo a una delle finali più lente e equilibrate della storia. Justin è ancora un contemporaneo ma, in forza della lunga squalifica, ha avuto modo di riposarsi. Kim non si mai fermato, va per i 38 anni e qualche giorno è sceso sotto i 6”50, mondiale master, ovviamente. C’è anche il tempo di annotare il quarto asso calato da Haile Gebrselassie che al chiuso si sente a suo agio come all’aperto e dopo i 3000 del ’97, la doppietta 1500-3000 di Maebashi, infila e infilza ancora i 3000 andando ad affrontare con successo le doti di finisseur dello spagnolo Alberto Garcia.

SEGUICI SU: Twitter: @atleticaitalia | Facebook: www.facebook.com/fidal.it



Condividi con
Seguici su: