Ivano Brugnetti, 40 anni in marcia

01 Settembre 2016

Buon compleanno al marciatore azzurro campione olimpico della 20km ad Atene 2004

di Giorgio Cimbrico

Husky annusa e addenta i 40 anni: suona strano, pare impossibile, ma è proprio così. La sensazione è più o meno quella provata quando Alessandro Lambruschini, l’anno scorso, è arrivato ai 50. Eterni ragazzi. Occhi di ghiaccio, occhi allegri. Chi ama l’atletica deve essere riconoscente a Ivano Brugnetti: è lui a interrompere un digiuno di vittorie olimpiche lungo sedici anni (Gelindo Bordin a Seul 1988), a sedersi, quel 20 agosto 2004 ateniese, al fianco di Maurizio Damilano e Alberto Cova, gli altri due azzurri ad affiancare titolo olimpico e mondiale, in un ordine o nell’altro fa poca differenza. Considerando che ai loro tempi la rassegna iridata non esisteva e tenendo conto della superiorità espressa in campo europeo, del club possono essere iscritti anche Luigi Beccali, Adolfo Consolini e Abdon Pamich.

Ivano, detto l’artista (con tutti i pregi e difetti di chi porta addosso le stigmate del genio), aveva, tra le tante doti esclusive, quella di riconoscere un’auto dai cerchioni: lo confidò Antonio La Torre, scopritore e allenatore del talento della Milano di cintura. Bresso è il luogo di nascita dell’autore di una strana parabola: dalla fatica estrema e dalla durata senza fine della 50 km ai ritmi feroci e sincopati della 20.
Proprio la distanza senza pietà lo rivelò, nel clima torrido di Siviglia, Andalusia battuta dal sole. Quando festeggiò quella medaglia d’argento nel patio (finalmente un po’ d’ombra…) del Barrio Gotico che ospitava Casa Italia raccontò delle piaghe alla sommità delle sue magre cosce, del sapore di sale del sudore, dell’asfalto che cuoceva le piante dei piedi. Era felice come avesse vinto e infatti aveva vinto: German Skurygin, originario degli Urali, due anni dopo venne squalificato per positività, aprendo un lungo libro nero fitto dei nomi degli allievi e delle allieve di Viktor Chegin.

Ivano Brugnetti (foto Colombo/FIDAL)

Skurygin è morto nel 2008, a 45 anni, per un attacco cardiaco.

Tra quella vittoria negata e la giusta ricompensa (“ma non è la stessa cosa”), avvenne la metamorfosi di Ivano da cinquantista a “velocista”. La migliore delle referenze la offre il suo mentore Antonio La Torre: “Un diamante, e come tutti i diamanti, ricco di sfaccettature. Qualcuna era opaca. Abbiamo esultato, abbiamo litigato, ci siamo voluti e ci vogliamo un gran bene”. Flashback su quella mattina calda, la prima dell’atletica ad Atene: l’ultima sera sarebbe stata di Stefano Baldini, un magnifico alfa, un magnifico omega. Favorito l’ecuadoriano Jefferson Perez, campione otto anni prima ad Atlanta, ma l’uomo dell’alta sierra, devoto della Vergine del Cobra, non tiene il ritmo e la fisionomia della gara è molto chiara dopo 12 km: Ivano, lo spagnolo Francisco Fernandez e l’australiano Nathan Deakes. All’ingresso nello stadio l’aussie prende qualche metro ed è fregato. Ivano, in testa, non si volta, affibbia cinque secondi a Fernandez, scende sotto l’1h20’, diventa campione olimpico più o meno un quarto di secolo dopo Maurizio Damilano. In tribuna c’è chi piange.

Ivano, quello con gli occhi da cane da slitta e che nel caldo dava il meglio: “E così, dopo Atene, speravo che sarebbe andata bene anche a Pechino. Partii per il bersaglio grosso, finii quinto e provai una delusione feroce. Amavo la gara coraggiosa, con il naso davanti. Ci ho provato anche nel 2010 a Barcellona, agli Europei. Fisicamente ero perfetto, ma la testa era vuota; la capacità di concentrazione, evanescente”. E’ stato in quel momento che ha cominciato a pensare di chiudere: “Mi è costato perché mi sentivo ancora rombare”. Il vecchio artista ora è un padre di famiglia. “Due bambine, quasi gemelle, nate a quindici mesi una dall’altra. La seconda è Federica, la prima è Vittoria. Ma il nome non dipende da quel che ho combinato ad Atene. Vittoria e basta”.

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