Irena, storia d'Europa

07 Agosto 2014

Irena Kirszenstein-Szewinska, ebrea polacca nata a Leningrado da una famiglia scampata all'Olocausto, è stata l'unica atleta a conquistare i record del mondo di 100, 200 e 400

di Giorgio Cimbrico

Irena Kirszenstein-Szewinska porta addosso e nello sguardo, sempre più evidenti, i segni di storie che il Secolo Breve ha provato a spazzare, quelle di una Polonia ebraica, quelle descritte da Isaac Singer in uno dei libri che devono esser letti: “La Famiglia Moskat”. Irena sembra provenire da uno di quei salotti scomparsi e distrutti, da una di quelle strade di Varsavia martellate dalla Luftwaffe. Di quella Polonia che non esiste più devono averle parlato i genitori che si erano salvati dall’Olocausto rifugiandosi in Unione Sovietica: il suo luogo e sua la data di nascita – una ancora prostrata Leningrado, nel 1946 – sono altri elementi, forniscono altre rivelazioni.

In un anno di Europei, ormai sempre meno distanti, viene naturale parlare di lei, che sul podio del vecchio continente andò dieci volte, cinque da campionessa, tra il ’66 e il ’78. Dodici anni di saga anche alle Olimpiadi, dal ’64 al ’76, con sette medaglie, tre d’oro. Un fenomeno di longevità a livelli non alti, celestiali. Campi d’applicazione, i più svariati: 100, 200, 400, lungo, 4x100. E partendo dalla fine, come spesso capita nelle buone storie, val la pena ricordare che alla prima Coppa del Mondo, Dusseldorf ’77, Irena lasciò alle spalle le giovani leonesse Barbel Wockel nei 200 e Marita Koch nei 400. Aveva trentun anni – le sue avversarie nove e undici di meno - e dava l’idea di essere un pezzo di passato e un’assicurazione sull’eternità.

La lunga signorina Kirszenstein era apparsa sulla scena come lunghista e sprinter, al fianco di una bionda con cromosomi sballati: Ewa Klobukowska. Seconda a Tokyo ‘64, dietro una Mary Rand da record del mondo sull'ultima pedana in terra battuta della storia olimpica prima di assaggiare il primo oro con la staffetta polacca; seconda, a meno di una spanna da Ewa l’anno dopo, a Praga, per un doppio record mondiale dei 100, 11”1, il tempo che sarebbe stato uguagliato da Wyomia Tyus e da Barbara Ferrell, le due americane che la precedettero sul traguardo di Città del Messico: il verbale di gara dice 11”08, 11”15, 11”15. Irena si rifece nei 200 infilzando le australiane Raelene Boyle e Jennifer Lamy, con un record del mondo portato a 22”58.

Meglio procedere con brevi puntate su e giù per il tempo perché con Irena di mezzo c’è il rischio di scrivere un volume corposo come quello meraviglioso di Singer. Un capitoletto è dedicato al ’74 quando va a Potsdam, una delle tane delle terribili panzerine in canottiera blu, martello e compasso, e le mette tutte in fila, da Renate Stecher in giù, correndo in 22”0,  record del mondo andato a libro anche come 22”21, primo limite della storia  con cronometraggio elettrico. Era in un periodo di condizione strepitosa e nove giorni dopo, a Varsavia, firmò la prima irruzione sotto i 50”: 49”9 manuale.

Due anni spaccati dopo, ancora in Polonia, a Bydgoszcz, tolse per due centesimi –  49”75 -  il record del mondo, fresco di conio, alla bambina prodigio della Ddr, Christina Brehmer. Ma non era che all’inizio dell’opera di demolizione del giovanissimo talento perché poco più di un mese dopo, ai Giochi di Montreal, alla tedesca democratica affibbiò un distacco abissale, da cronoprologo: 1”22. In quell’occasione il record del mondo passò a un moderno, o è meglio dire contemporaneo, 49”29. Una rilettura del photofinish, effettuata con rigore dall’Associazione degli Statistici, le ha assegnato un centesimo in meno.

Un simbolo, un monumento, la donna che visse molte volte, unica nella storia ad aver stretto in pugno i record del mondo di 100, 200 e 400. Non ci fosse stato di mezzo il sesso incerto di Ewa, anche della 4x100. E se, nei primi tempi, si fosse dedicata un po’ di più al salto in lungo…

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