Fabbrino&Paolone, la staffetta del peso

25 Gennaio 2020

Fabbri (21,32) ha superato il suo allenatore Dal Soglio (21,23): passaggio di testimone tra l'azzurro quarto ad Atlanta e l'ultima "statua" della scuola fiorentina

di Giorgio Cimbrico

E ora che, sullo stile di Cimabue-Giotto, l’allievo, Leonardo Fabbri detto Fabbrino, ha superato il maestro, Paolo Dal Soglio, detto Paolone, è il caso di riesumare una vecchia storia che risale a quasi un quarto di secolo fa.

Paolo, vicentino, amante delle auto d’epoca, proprietario di una bacheca zeppa di un’impressionante collezione di 26 titoli italiani, ripartiti tra quelli centrati all’aria aperta e indoor, trasformatosi in eccellente mentore di giovani promesse, ha anche la chance dolce-amara di ricordare quel che capitò nella sua stagione più bella: poteva essere clamorosa. Inaugura l’anno con la vittoria ai Campionati Italiani di Genova, prosegue catturando gli Europei indoor di Stoccolma bruciando all’ultimo lancio, con 20,50, i tedeschi Buder e Urban, vince in Coppa Europa con 20,72. A questo punto, non gli resta che far rotta per Atlanta, la città che ha avuto in sorte l’Olimpiade del Centenario.

È la sera del 26 luglio 1996 e dopo due turni Paolone è in testa con 20,65. Idem dopo tre. Idem anche dopo quattro giri di valzer. John Godina, che a mezza strada rischiava di finir fuori, si porta minaccioso a 20,64 ma il riccioluto azzurro risponde con 20,74. Negli Stati Uniti, un po’ più a ovest (Los Angeles), dodici anni prima, Alessandro Andrei aveva conquistato il titolo davanti a Mike Carter, futuro titolare del SuperBowl con i San Francisco 49ers e parimenti futuro padre di Michelle, olimpionica di grandi forme. L’aria americana pare avere l’apparenza di tonico per i giganti d’Italia.

Gli ultimi atti sono drammatici: la palla di Godina scava un buco a 20,79, il lancio più lungo della serata ed è l’unica novità fornita dal quinto turno, prima che lo scenario subisca una metamorfosi. Ultimo giro di roulette: Randy Barnes, sino a quel momento sesto, spara a 21,62 (allo stesso turno, a Seul, Ulf Timmermann aveva sfilato all’americano la medaglia d’oro, 22,47 a 22,39) e l’ucraino Oleksandr Bagach, dal volto eternamente minaccioso, ottiene quel tanto, 20,75, che è sufficiente a far scendere dal podio l’azzurro che, all’ultimo tentativo a disposizione, risponde da invitto: un lancio attorno ai 21 metri, da medaglia d’argento, nullo di piede. Il verdetto viene accettato con limpida serenità. Dal Soglio si sarebbe consolato – in parte – a settembre, a Grosseto, spingendosi a 21,23. Sia Barnes che Bagach in seguito vennero squalificati a vita.

Seconda parte, molto fiorentina. Ascanio Condivi scriveva che quando Michelangelo aveva cominciato a intravedere, dentro quel non perfetto blocco di marmo, quel che sarebbe diventata la colossale figura di David, andava in giro per le strade di Firenze alla ricerca di modelli, di movimenti, di tensioni muscolari: li trovò nel lavoro degli artigiani, soprattutto mastri bottai e fabbri. In questo caso fabbri ha l’iniziale minuscola. In realtà il David che di lì a poco apparve dal marmo ha più il fisico di un decatleta che di un lanciatore ma le peregrinazioni di Michelangelo, culminate in una serie di disegni sparsi tra la collezione di Elisabetta a Windsor e una lunga serie di illustri musei, sono servite a formare il corpo di un solido canone: i fiorentini hanno sempre prodotto uomini forti. Non è un caso che all’Accademia, prima di giungere nella rotonda che ospita il David, quattro barbuti Prigioni, questi sì dalla muscolatura accentuata per non dire ipertrofica, stiano lottando per liberarsi del marmo che il Maestro non aveva eliminato, in uno dei tanti percorsi di “non finito” che hanno scandito la vita del genio che amava sfide totali, a volte troppo grandi. 

Già cinquecento anni or sono, i fiorentini potevano contare su uomini nerboruti, lontani da certi stereotipi volpini o grifagni, come Niccolò Machiavelli, come Cosimo de’ Medici detto il Vecchio. I grandi e i grossi cresciuti nelle immediate vicinanze e in città sono stati in questi ultimi settant’anni la linfa, gigliata e azzurra, del lancio del peso. In una successione cronologica che ha la scansione di una staffetta tra generazioni, ecco i cinque titani che hanno messo le mani su un oro olimpico, tre record del mondo e 52 titoli italiani. La tradizione ha un germoglio molto fresco, proprio il giovane Leonardo Fabbri che porta il nome (beneaugurante) di un altro toscano di chiara fama e di genio.

Angiolo Profeti, nato a Castelfiorentino nel 1918, 1,88 per 108, Assi Giglio Rosso, 15 titoli italiani, argento europeo a Bruxelles 1950, dodicesimo ai Giochi Olimpici di Helsinki 1952. Primato personale, 15,42.

Silvano Meconi, nato a Cortona nel 1931 e trapiantato a Firenze, 1,88 per 118, Assi Giglio Rosso, 13 titoli italiani, decimo ai Giochi di Melbourne 1956 e quinto agli Europei di Stoccolma 1958. Primato personale, 18,82. Tre volte primatista europeo nel 1959.

Marco Montelatici, nato a Firenze nel 1953, 1,85 per 108, Assi Giglio Rosso (e poi Iveco), 10 titoli italiani, terzo agli Europei indoor di Madrid 1986. Primato personale, 20,90.

Alessandro Andrei, nato a Scandicci nel 1959, 1,91 per 118, Assi Giglio Rosso (e poi Fiamme Oro), 12 titoli italiani, campione olimpico a Los Angeles 1984, secondo ai Mondiali di Roma 1987. Tre primati del mondo (22,72, 22,84, 22,91) il 12 agosto 1987 a Viareggio.

Leonardo Fabbri, nato a Bagno a Ripoli nel 1997, 2,00 per 136, Atletica Firenze Marathon (e poi Aeronautica), fuori dalla finale mondiale con 20,75. Ora 21,32, secondo di sempre.

Cinque, proprio come le statue michelangiolesche della Galleria dell’Accademia. Il museo del lancio del peso.

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