Damilano, 60 anni per i gemelli in marcia

06 Aprile 2017

Oggi l'olimpionico e iridato Maurizio e il fratello Giorgio tagliano il traguardo di un compleanno speciale

di Giorgio Cimbrico

C’è stato un tempo in cui per comunicare con i fratelli Damilano era necessario non spingersi più in là delle dodici e tre quarti. Appena più tardi, al telefono rispondeva la mamma: “Sono usciti, sono andati al bar dei Cacciatori a giocare alle boccette”. Non rimase che, attraverso l’ufficio informazioni della Sip - sembra di parlare del tempo dei faraoni Amenofi VI o Tutmose III - ottenere quel numero e annotarlo nella rubrica. Era utile.

Il bar e tutto quanto vi sta attorno a Scarnafigi sono diventati le tappe di una visita, che può ricadere nel repertorio di laici pellegrinaggi, molti anni dopo, quando il paese decise che era venuta l’ora di onorare il suo figlio più illustre con un monumento, collocato sull’incrocio appena fuori dall’abitato: Saluzzo è il centro più importante indicato dai cartelli. Era un giorno autunnale di pioggia sottile e la sfera del mondo era circondata ai quattro angoli cardinali dalla silhouette di Maurizio. Brevi discorsi, senza retorica, prima di una visita a una vecchia cappella dove erano stati radunati memorabilia accanto a una quantità impressionante di ritagli, accuratamente ordinati e incollati a pagine di album grande formato, stile matrimonio o prima comunione. La piccola pattuglia che si era spinta a festeggiare un amico venne presa per un attimo da una sorta di autocompiacimento: “questo l’ho scritto io”, “questo l’ho scritto io”, precipitando in un vortice di tempo perduto e ritrovato. Le glorie di Maurizio e dei maschi di famiglia affiancavano esercizi di narrazione, secchezza di cronache, srotolarsi di interviste, confessioni di progetti, anniversari.

La visita a questa mostra semplice, organizzata in un’accumulazione di affetto, divenne l’introibo alla cena, cucinata dal gruppo alpini: ravioli in brodo, bollito misto, dolcetto che Sandro giudicò ancora giovane ma decisamene bevibile. La partecipazione risultò vasta: c’era il festeggiato, c’erano i festeggiati, c’era il paese, c’era Stefania Belmondo, l’altra cuneese oro olimpico, c’era Elisa Rigaudo con la sua prima nata, c’era Italo Zilioli, trapiantato a un tiro di sasso da Scarnafigi.

L’ambiente, brusco e cordiale, si avvicinava a quello dei libri di Nuto Revelli, cuneese, e di Mario Rigoni Stern, dalle profonde radici piantate nell’altopiano di Asiago, ma che nel suo plotone, sul Don, aveva tanti soldati contadini o montanari di quell’ovest. Il fratello e i gemelli regalarono ai 120 commensali un fascicolo, stampato per la festa patronale, con le immagini della loro vita e una Damilaneide a fumetti. Gli autografi in copertina non erano stampati, erano autentici. La testimonianza venne da Sandro: “Abbiamo messo firme per delle ore”.

Maurizio e Giorgio Damilano alle Olimpiadi di Mosca 1980

Una volta tanto avevano le mani più stanche dei piedi.

In questa lieve e indimenticabile giornata d’ottobre c’è la storia, la spiegazione di Maurizio, dalle gote che si imporporano così come gli capitava da adolescente e, con Giorgio, dominava le garette, i Giochi della Gioventù, i campionati allievi e juniores, e dietro c’era già, c’era sempre, il volto che poteva essere feroce e generoso di Sandro, deus ex machina, teorico calato nella pratica, innamorato di calcio, capace, dopo aver annunciato di non aver nulla da dire, di monologhi interminabili.

Quei visi, quelle espressioni ritornano per questo compleanno molto tondo, importante, che coinvolge i protagonisti di un doppio ritratto che, via telefoto, fece il giro del mondo il 24 luglio 1980: Maurizio campione olimpico e Giorgio undicesimo sono guancia contro guancia, sullo sfondo le scalee in pietra dello stadio Lenin. Non sorridono: la foto è stata presa quando la fatica pesava ancora come il piombo. Trasognati, è il massimo si possa dire di quanto è rimato impresso in quel bianco e nero.

In gioventù, quando i gemelli erano ragazzini, Sandro aveva un punto di riferimento che era un ideale: Vladimir Golubnichy, che ora si scrive Volodymyr Holubnychy: l’ucraino non è il russo, tengono a precisare loro. Vladimir aveva l’aria dell’operaio che, finito il turno di lavoro, amasse mettere un piede dopo l’altro, senza sentire un morso di fatica. La sua capacità di inoltrarsi nel tempo divenne memorabile: campione olimpico a Roma 1960 (e capace di fare il bis a Mexico), festeggiò la sua solida eternità all’Olimpico, quattordici anni dopo, con un titolo europeo che commosse i membri della tribù.

Maurizio ha saputo avvicinare quelle cadenze: campione mondiale undici anni dopo a Tokyo dopo aver inframmezzato, come Vladimir, il suo cammino con un altro titolo importante, quello di Roma ’87, nella giornata frenetica del record mondiale di Stefka Kostadinova e di quello, che si sarebbe dimostrato effimero, di Ben Johnson. Quando decise di chiudere, diede l’addio a Cuneo con i record mondiali, imbattuti dopo quasi un quarto di secolo, dei 30 km e delle due ore. Era il 3 ottobre 1992 e mancava poco al 500° anniversario della scoperta dell’America: anche Maurizio aveva scoperto un’altra sua dimensione. Più tardi, coperto di decorazioni come un generale russo (nella combinata Olimpiadi-Mondiali, nessuno come lui nell’atletica azzurra), si sarebbe inoltrato su un’altra strada, quella delle riforme, per rendere meno litigioso e controverso il mondo in cui era cresciuto, aveva marciato, aveva vinto.

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