D'Agostino, la lunga esperienza da CT

06 Aprile 2017

Ex ct della nazionale femminile e per 22 anni ct delle nazionali giovanili, espone il suo pensiero e la sua esperienza alla rubrica "L'atletica raccontata"

 di Orlando Del Grosso

Quando è partito questo filone di storie, ho contattato quello che ritengo essere l’archivio vivente dell’atletica abruzzese, ovvero Roberto Ragonese, il quale gentilmente mi ha stilato una lista di corregionali che hanno vissuto le vette dell’atletica leggera. Ad un certo punto, verso la fine della lista (inomi erano elencati in maniera casuale), ho letto il nome di Augusto D’Agostino. Ovviamente, il nome è talmente conosciuto che non si può dire di non avere più o meno l’idea di chi sia, ma per un’intervista si deve fare un lavoro di ricerca biografica, e quando ho fatto quella per il Professore mi sono reso conto che avrei dovuto intervistare un “guru”, una pietra miliare della nostra atletica. Ora, il concetto di nostro, potrebbe essere inteso come regionale, e sicuramente lo è, ma nel caso del Professore, lo dobbiamo usare in senso nazionale. Si, perché, se è vero che è “nostro” è anche vero che quel “nostro”, potrebbe essere usato anche dall’Italia intera. Cosa significa questa ultima frase? Precisamente non lo so neanche io, ma credo sia utile a far capire la storia del personaggio che intervisterò e l’ansia che ho nel farlo. Dite che esagero? Guardate cosa riporta il sito della FIDAL: “Iniziata la carriera da tecnico di società nella Aterno Pescara (anno 1961­-62), è approdato al Settore tecnico nazionale (come collaboratore delle squadre giovanili) nel 1965, passando poi alla squadra femminile - CT Sandro Giovannelli - nel periodo 1970-1975. Nel 1975 è stato nominato responsabile delle squadre e attività giovanili, incarico mantenuto per ventidue anni. Nel quadriennio dei CT Lenzi e Ponchio (1997-2000) è stato collaboratore con il settore giovanile. Nei quattro anni successivi (2001-2004) ha ricoperto il ruolo di Commissario Tecnico delle squadre nazionali femminili, rientrando poi in Federazione, nel 2009, da Consigliere Federale (eletto nella quota Tecnici). Nell'ambito sportivo ha anche svolto l'attività di preparatore atletico del Pescara Calcio in serie A, e della squadra di Basket (per quattro stagioni), sempre nella massima serie." Fatto il quadro della “situazione”, non mi rimane che fare un lungo respiro e iniziare con le domande.

Salve Professore e benvenuto sulla rubrica “l'atletica raccontata”. Ho fatto un giro su internet per trovare informazioni su di lei e mi sono reso conto che non ha una pagina su Wikipedia!. Se lei è d’accordo, dopo l’intervista, aprirò io stesso una voce a suo nome, che ne pensa?

Intanto, dottor Del Grosso, voglio ringraziarla per l'intervista. Per quanto riguarda la pagina su Wikipedia, devo dire che sarebbe veramente un gesto carino ed apprezzato, quindi ha il mio assenso.

Entriamo nel vivo dell’intervista. Il sito della Fidal riporta come anno di inizio della sua carriera da tecnico, il 1961, prima di questa data chi era e cosa faceva il Prof. D’Agostino?.

"Prima dei 1961 ho frequentato per tre anni l’ ISEF di Roma, a quei tempi l'unico Istituto, per l'educazione fisica, esistente in Italia, in cui venivano scelti annualmente 55 allievi, dopo un concorso pratico-teorico, su 6-700 Candidati. Anni prima mi ero diplomato Geometra e, nel mentre, svolgevo attività sportiva dilettantistica tra atletica leggera e calcio".

Nella sua lunghissima carriera di allenatore e dirigente, ha ricoperto ruoli molto importanti per la federazione. Quello di maggiore prestigio è stato, forse, il ruolo di Commissario Tecnico delle squadre nazionali femminili dal 2001 al 2004. Ci racconti questo periodo, quali erano i suoi compiti, cosa faceva da CT, come si vive e si vede l’atletica da quella posizione?

"Certamente il ruolo di Commissario Tecnico delle squadre Nazionali Femminili è stato quello più prestigioso. Devo dire che sono stato anche fortunato, perché ho guidato un gruppo di giovani ragazze tra cui grandi talenti come Fiona May e Magdeline Martinez, oro mondiale la prima in Canada, e bronzo mondiale a Parigi la seconda; Maria Guida, oro europeo in Germania nella Maratona, Manuela Levorato due Bronzi ( 100 e 200) agli Europei di Monaco di Baviera, Erika Alfridi, bronzo europeo sempre in Germania, nella 20 Km di Marcia. Insomma, qualche medaglia in quegli anni l'ho vista.

Il mio ruolo consisteva innanzitutto nel programmare con le atlete ( insieme ai tecnici specialisti e ai tecnici personali) l'attività nazionale e internazionale, seguendole nei raduni nazionali e decidendo le scelte di partecipazione, delle stesse, agli impegni agonistici. C’era poi da sbrigare una parte burocratica in federazione e decidere sulle richieste, di varia natura, delle atlete. Il rapporto con le atlete è stato sempre ottimo anche perché si doveva, quotidianamente, essere al corrente del loro "status vivendi". Per me questo impegno è stato molto stimolante, appassionante, interessante, non si avvertiva la fatica, pur nell'intensità degli impegni tecnici ricorrenti. I momenti agonistici si vivevano creando intorno alle atlete un clima di serenità, cercando di evitare problematiche di qualsiasi genere. Comunque, quello è un mondo dove si vive un'atletica da professionista, senza sbavature e/o arrangiamenti di sorta. Si è rispettati e sostenuti ad ogni livello e le attività si vivono molto da vicino, il che permette di comprendere quali sono i reali meriti e abitudini degli atleti".

Lei è stato anche responsabile nazionale del settore giovanile per ventidue anni, dal 75 al 97, se non erro. In pratica ha visto passare sotto la sua guida la “meglio gioventù”, quella gioventù che ha regalato grandi risultati e indelebili soddisfazioni al nostro sport. Chiederle di raccontarci questo periodo sarebbe cosa troppo lunga, per il taglio della nostra intervista, ma, se posso, mi piacerebbe che lei dipingesse un affresco di quel periodo.

"Un periodo talmente lungo, più di 20 anni, dove ho avuto la fortuna di conoscere il mondo dell'atletica giovanile con le sue peculiarità, costumi, consuetudini, tradizioni, livelli di sviluppo dello sport in genere, e, in particolare, quelli propri dell'atletica leggera. Il nostro sport, in quel periodo, era abbastanza diffuso e frequentato, spinto dalla scuola, con le preferenze e l'abnegazione dei giovani che la sceglievano, dei tecnici delle società molto preparati e appassionati e con il sostegno di un vertice tecnico federale ben organizzato nella diffusione di iniziative e aggiornamenti tecnici verso la periferia . Un momento d'oro per il nostro sport e per me, perché è stato in questo periodo che ho formato il mio "habitus" culturale, che poi ho utilizzato negli incarichi successivi. Devo ancora sottolineare, però, che in quel periodo, la nostra gioventù, presentava una ottima predisposizione fisica-comportamentale. Di certo, queste caratteristiche, di cui i ragazzi di quell'epoca erano forniti, erano i frutti di un sociale, in senso generale, adeguato alle esigenze dell’atletica".

Lei ha sicuramente il curriculum per poter esprimere un parere oggettivo sull’evoluzione che l’atletica leggera in Italia ha avuto negli ultimi cinquanta anni. Ci aiuti a capire da dove veniamo a dove stiamo andando.

"Tra gli anni sessanta/settanta inizia ad evidenziarsi un primo progresso sotto l'aspetto della partecipazione e della crescita tecnica organizzativa, grazie anche alla spinta, partita negli anni cinquanta, dell'attività sportiva svolta nella scuola. Tale spinta permise, al nostro sport, una certa visibilità, che si trasformò, nel tempo, in "pratica" sportiva. Negli anni ottanta/novanta in Italia l'atletica leggera ha raggiunto certamente un ottimo livello, un livello di valore internazionale che si è mantenuto fino ai primi anni del 2000 (2005/2006), per poi avere una flessione, decisamente negativa, negli ultimi 10 anni. In poche parole si può affermare che nel nostro paese l'atletica leggera è andata, e/o sta andando, di pari passo con le involuzioni sociali. L'atletica leggera, la quale alla base ha il sacrificio e l'abnegazione, non è gradita dalla nostra gioventù. Questa incapacità di una buona fetta di giovani, all'impegno e alla perseveranza, nasce da una più profonda incapacità delle istituzioni nell' indirizzare le scelte di vita dei ragazzi. Le istituzioni non riescono più in questo, perché disconoscono i doveri e gli obblighi socio/culturali necessari a dare giusto sviluppo e supporto ad una società. Queste mancanze da parte delle istituzioni, producono una mentalità inadeguata e, come dicevo nella risposta precedente, una carente predisposizione fisico/comportamentale".

Siamo all’ultima domanda. Lei ha viaggiato molto, si è confrontato con l’atletica mondiale, ha scambiato opinioni e visioni con atleti, tecnici e dirigenti provenienti da svariate realtà. Se dovesse importare in Italia tre sistemi, peculiarità, modi di intendere l’atletica, che ha visto o sentito durante la sua esperienza al vertice, quali prenderebbe? Quali secondo quelli che, secondo, lei potrebbero aiutare l’atletica italiana?

"Una premessa è d'obbligo: se si vuole comprendere l'andamento di uno sport, in un determinato paese, si deve partire dalla conoscenza socio-economica dello stesso. Io credo che il nostro paese sotto tale aspetto, attualmente, non è più tra le prime nazioni, anzi, è molto indietro. La questione, quindi, coinvolge tutto il sistema Stato, con l'istituzione CONI preposta all'organizzazione sportiva della nazione, la quale riceve dallo Stato una cifra di circa seicento e rotti milioni di Euro all'anno per finanziare tutte le discipline sportive sul territorio, costretto, tra l'altro a perdere il collegamento diretto con la scuola, per una programmazione sportiva capace di generare quella massa critica giovanile necessaria ad alimentare gli sport minori, tra cui il nostro.

Oltretutto, per il momento attuale in cui chi riesce a farsi grossa pubblicità, guadagna e spreca a danno degli sport minori, i quali non sono in grado di mantenere il passo nella loro pur povera normalità. Concludo affermando che in tutte, o quasi, le nazioni di un certo livello, lo sport è collegato direttamente allo Stato. Ma forse in Italia è meglio così. Dopo questo sfogo ritorniamo sulla sua domanda.

Malgrado tutto, per fortuna, la nostra atletica è ancora in mano agli appassionati che, volente o nolente, incidono sull'indirizzo di scelte tecniche. Ho conosciuto abbastanza il mondo internazionale dell'atletica leggera e quindi, non si stupisca se affermo, senza dubbi, che il nostro paese è il più acculturato, da un punto di vista tecnico-scientifico. Non facciamoci ingannare dalle medaglie di nazioni più grandi di noi, più organizzate socialmente ed economicamente e, in più, con predisposizioni genetiche di vario tipo verso l'attività sportiva. A riprova di quanto sto affermando, vorrei precisare che molte delle esperienze fatte da nostri atleti/e, in diverse parti del mondo, non sono state positive. Alcuni atleti emigrati all'estero tornavano con la consapevolezza che a livello tecnico-scientifico la scuola italiana era un gradino sopra le altre. In sintesi, posso dire che le debolezze del sistema Stato, che sono sociali, economiche, di scelta, organizzative e di mentalità, sono un fardello pesantissimo per il nostro sport, e di riflesso incidono su ciò che riusciamo a produrre, il che ci fa sembrare inferiori rispetto ad altre nazioni simili a noi per grandezza. Mi scuso per le mie 'uscite', ma sono sempre stato convinto che la 'retorica compendia l'attualità'. La ringrazio, e sono sempre a sua disposizione. Grazie per la gentile disponibilità".

 O.d.G.



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