Continental Cup: orizzonte Marrakech

11 Settembre 2014

Alla vigilia dell'ultimo grande appuntamento internazionale su pista del 2014, viaggio nella storia dell'atletica nel mondo arabo alla scoperta dei suoi protagonsti di ieri e di oggi.

di Giorgio Cimbrico

La vecchia Coppa del Mondo, ribattezzata Coppa Continentale, sta per andare in scena a Marrakesh, la più folkloristica e visitata tra le città imperiali marocchine: è l’occasione buona per un viaggio dall’Atlantico al Golfo Persico, dentro l’atletica che corre, e non solo, dal Maghreb a quella che i romani chiamavano Arabia Felix. L’incenso e le spezie erano il petrolio del quel tempo. E’ una storia che comincia lontana e affonda le sue radici nella vittoria di Boughera el Oaufi nella maratona olimpica di Amsterdam. Quel giorno, il 5 agosto 1928, Boughera - fante congedato e operaio alla Renault - portava addosso il tricolore e il galletto di Francia, così come sarebbe capitato nel ‘56 a Alain Mimoun, di identica origine algerina, quando, dopo una lunga trafila da eterno secondo alle spalle di Emil Zatopek, avrebbe conquistato il successo nella maratona di Melbourne.

La prima medaglia incontestabilmente araba sarebbe venuta quattro anni dopo, quando Rahdi Ben Abdesselem si arrese solo ad Abebe Bikila nei 42 chilometri romani, finiti tra marmi antichi e tenebre incombenti. Così come il leggendario etiope, anche Rahdi era militare nella guardia imperiale, quella marocchina, difesa scelta e personale del Difensore dei Credenti. Meno di un quarto di secolo dopo, a Los Angeles ’84, l’Islam avrebbe spedito sotto i riflettori Nawal el Moutawakel, la prima donna a scatenare l’entusiasmo in quel mondo vasto e a creare sorpresa nel resto del globo. Qualcosa stava cambiando.

La Tunisia di Mohammed Gammoudi, l’Algeria di Noureddine Morceli, di Said Guerni, di Saidi Sief e di Hassiba Boulmerka dall’incontenibile felicità, il Marocco di Said Aouita, di Hicham El Guerrouj (che domenica taglia il traguardo dei 40 anni) e di un’interminabile lista di campioni mondiali, di piazzati di etralusso, di autori di prestazioni che hanno lasciato il segno, sotto forma di venti record del mondo e di ventisei medaglie olimpiche, sembra isolare la pratica dell’atletica a quel mondo attestato tra il Mediterraneo occidentale e le sponde dell’Atlantico, a quello scenario di deserto, di montagne assolate e innevate, di guerre coloniali antiche e brutali.

Un primo segno di svolta balenò nel 1996, ad Atlanta, quando la siriana Ghada Shouaa diede una profonda svolta geografica alle prove multiple, regno delle europee e dell’implacabile tuttofare Jackie Joyner, e i sensi si accesero quando quattro anni dopo, a Sydney, Hadi Soua’an al Somaily mancò per tre centesimi il titolo dei 400hs, piegato sul traguardo da Angelo Taylor. Ksa annunciava la sigla accanto al suo nome, Kingdom of Saudi Arabia, il ricco regno che attirò allenatori americani e che finì per offrire virgulti  e frutti. Giusto quest’anno il record nazionale di Haidan Al Bishi, 44”66, è stato radicalmente abbassato, sino a 44”43, da Yousef Ahmed Masrahi. E la stagione che corre verso la fine ha disegnato lunghe parabole egiziane: con 81,27 Mostafa Al Gamel è terzo al mondo nel martello, con 89,21 Ihan Abdelrahman el Sayded è primo nel giavellotto. La corsa non basta più.

I ricchi paesi del Golfo oggi hanno spedito su una scena dalla luce abbacinante Moutaz Essa Barshim, padre qatariano, madre sudanese, leggero come una piuma, aereo come un gentile diavoletto estratto da una fiaba di Sheherazade, capace di salire creandosi un ascensore invisibile (limite di peso, 62 chili, tanti quanti dichiarati alla bilancia da questo sorridente fuscello), secondo uomo della storia dopo Javier Sotomayor e sempre più nei pressi di chi, da ventun anni, siede sulla montagna più alta. A fine settimana Barshim ha la possibilità di pronunciare la formula magica ed entrare nella grotta delle meraviglie. Un arabo in un paese arabo per un’ennesima primavera.

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