Cinque Mulini, la stella del 6

27 Gennaio 2016

Un viaggio nell’albo d’oro della campestre di San Vittore Olona, dove hanno corso i più grandi del mezzofondo

di Giorgio Cimbrico

Alla 5 Mulini il numero da tenere d’occhio è il 6: il deus ex machina Alfredo Turri lo assegnava alla stella più brillante che si era assicurato dopo appassionate trattative. Se lo appiccicò addosso (a dire il vero, a quel tempo servivano gli spilli da balia…) Kip Keino per il suo successo datato ’64 e gli altri che lo ebbero in sorte e lo portarono per primi al traguardo, nello stadiolo di San Vittore, sono stati Frank Shorter, Emil Puttemans, Filbert Bayi, John Ngugi, Fita Bayesa (detto Mister Cinque Mulini per la sua raffica di vittorie), Charles Kamathi, Kenenisa Bekele.

Se il numero amato da Turri compare come cifra terminale dell’anno, le cose vanno bene per gli italiani: nel ’56 vince Rino Ravelli, nel ’76 è necessario un campione di stoffa molto pura (Bayi) per lasciarsi alle spalle Franco Fava (il crossman più convinto ed efficace della storia azzurra) e Venanzio Ortis e nell’86, a 22 anni da Antonio Ambu, l’albo d’oro annota il ritorno di un azzurro, Alberto Cova che infila Gelindo Bordin in quello che, per l’Italia della corsa campestre, rimane il miglior ordine d’arrivo dell’età moderna. Alberto, l’uomo dallo spunto che non perdonava (domandare a tanti, con particolare attenzione a Werner Schildhauer), aveva vinto gli Europei dell’82, i Mondiali dell’83, l’Olimpiade dell’84, aveva centrato la doppietta 5000-10000 in Coppa Europa a Mosca, nell’85. Il successo di un lombardo nella più mondale e lombarda delle corse ha il sapore del canto del cigno: di lì a cinque mesi cederà a Stefano Mei nella sfida infernale del Neckarstadion.

L’archivio della Sanvittorese si può aprire in orizzontale, in verticale, in diagonale o usando suggestioni cabalistiche e il risultato sarà sempre lo stesso: là hanno corso i più grandi. Tutti. Anche chi non aveva ambizioni, ma voleva provare quei sentieri, attraversare quei mulini, lanciare uno sguardo all’Olona schiumoso, solcare aie con lo stesso gusto, lo stesso rispetto che può esser avvertito salendo il Galibier o l’Izoard, entrando sul Centrale di Wimbledon, guardando da sotto in su il trampolino di Holmenkollen. Uno di quei luoghi di sport costruiti con un’attenzione che si chiama amore da fondatori orgogliosi. E in questo senso Giovanni Malerba appartiene alla stessa razza di Henri Desgrange, monsieur Tour.

Esserci, infangarsi, magari portare a casa qualche schizzo, come si fa con un ciuffo d’erba di uno stadio-tempio: nella raccolta fotografica c’è la corsa di magnifica retroguardia di quel buonanima di John Akii-Bua, seguito da una miriade di ragazzini eccitati; c’è l’impegno, su un terreno difficile, di Sebastian Coe; esistono immagini di gruppi di testa che facevano impazzire i suiveur che avevano scelto la miglior zolla per appostarsi e scrutare quei volti, giudicare il passo, azzardare un pronostico sin dal primo passaggio, affrontato con ritmo violento.

I più vecchi e assidui a questa sagra paesana e globale ricordano Billy Mills che venne e vinse da campione olimpico, come Gaston Roelants, come Re Kip, come Naftali Temu, come Frank Shorter, come Khalid Skah con il suo volto duro e deciso, come Albertino da Inverigo, come Kenenisa Bekele. E ci sono stati quelli che sono venuti e non hanno corso (Ron Clarke, improvviso febbrone: giustificato) e quelli che hanno corso e non sono riuscii a domare questa Roubaix a due gambe, non a due ruote: Gammoudi, Yifter, Wolde, Vasala, Viren, tanti altri.

E così, affrontandola da ogni versante, come si fa con una montagna leggendaria, la Cinque Mulini si offre per quel che è, una magnifica invenzione che il tempo e i suoi guasti non hanno coperto di crepe: capita quando si costruiscono monumenti solidi.

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