Capitan Vizzoni, martello d'argento

23 Settembre 2015

Il 24 settembre è il 15esimo anniversario del secondo posto dell'intramontabile lanciatore azzurro ai Giochi Olimpici di Sydney 2000

di Giorgio Cimbrico

Vestito di una lunga palandrana, Enrico Ghezzi filmava i video che trasmettevano la “neve” del fine trasmissioni e noi, lì accanto, festeggiavamo l’argento di Nick Manofredda, di Nicola il Mancino in quella serata di pioggia ad Auburn, estremo lembo della baia di Sydney dove viveva una rana rara e preziosa. A un palmo dall’oro, finito al collo di Zsimon Ziolkowski che aveva 24 anni e ne dimostrava il doppio, pelato come una palla di biliardo, subito battezzato “lo zio” e in possesso della solita tecnica sublime che è nelle corde e nelle grinfie dei polacchi che in Australia fecero man bassa come a Pechino 2015. Kamila Skolimowska, l’olimpionica adolescente, non è più tra noi.

79,64: le quattro cifre di Vizzoni sono rimaste dentro, come un numero di telefono dei tempi antichi, quando si passava per centralino (“Signorina, mi chiami il 7964”) e non per diavolerie disseminate nell’aria, o come il codice di avviamento postale di una località impossibile da dimenticare perché lì era nato un grande amore. La pedana era umida e nella prima delle sue confessioni Nick raccontò che a lui stava bene così perché era uno da bagnato, come certi piloti che non hanno paura quando sulla pista, all’accendersi dei semafori verdi, si alza un pulviscolo d’acqua, una nebbia di milioni di goccioline. E poi raccontò un’altra cosa che dopo tanti anni, quindici spaccati in queste ore, chi non era distratto non ha smarrito nei lunghi corridoi dl tempo. Ci sono molti lanciatori che in allenamento stupiscono anche loro stessi, facendo planare il loro attrezzo lontano lontano.

Nicola Vizzoni sul podio a Sydney 2000 (archivio FIDAL)

“Io no – diceva Nick – e così, quando prima di partire per l’Australia, andavo al campo e tiravo a 73,74 metri, capivo che qui a Sydney avrei potuto combinare qualcosa di buono”.

Nicola è di Pietrasanta e per aspetto e cadenza ricorda quei mastri a cui si rivolgeva Michelangelo quando andava alle Apuane per comprare blocchi per qualche sua commessa importante. “Vuoi che ti tagli un bel pezzo di carne?”, gli dicevano. Perché il marmo per loro era vita, tessuto, respiro. Nessun dubbio: cinquecento anni prima sarebbe stata l’arte di Nicola. La mazza, nel frattempo, è diventata un essenziale martello.

Da quel momento Nick è diventato un sacco di cose: il capitano, il saggio, quello che, più saldo della Rocca di Gibilterra, ha accompagnato lo srotolarsi degli eventi, benedicendo matricole, ma senza mai abdicare da un ruolo importante, da vertice, da uomo-gara, mai da botti in esibizione. E così, quando dieci anni dopo Sydney tornò sul podio – quello europeo di Barcellona – diventò un obbligo chiedergli un autografo sul risultato cartaceo da affiancare a un foglio australiano e lui fu così gentile da arricchirlo con il disegnino di una palla legata a un filo, imitando Emil Zatopek che si rappresentava come un omino inseguito dalla sua Dana armata di giavellotto. Guarda caso anche nella vita di Nicola c’è una seguace della signora Zapotkova, Claudia Coslovich da Trieste. Lanciare è anche amare. E amarsi.

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