California dreamin’: Tortu a Stanford

27 Giugno 2019

Domenica il primatista italiano dei 100 sulla pista di una delle università più gloriose d'America

di Giorgio Cimbrico

La prima trasvolata della sua vita porta Filippo Tortu a Stanford, uno di quei luoghi che hanno fatto la storia dello sport, come Wimbledon, Twickenham, Kitzbuhel, il vecchio Wembley, lo stadiolo di Ann Arbor, Iffley Road e tutti gli altri che hanno saputo offrire palpiti e costruire caposaldi. Dal 1912, prima partecipazione olimpica di studenti di quell’università, Stanford ha accumulato 139 medaglie d’oro, 73 d’argento e 59 di bronzo, in tutto 271. Nel numero sono compresi anche gli stranieri che studiavano là: uno degli esempi più freschi è Katerina Stefanidi. Non è l’università che ne ha vinte di più: Usc, Universiy of Southern California, quella di Tommie Smith e di John Carlos, è a quota 309. Complessivamente le quattro grandi università californiane (Usc, Stanford, Los Angeles e Berkeley) hanno raccolto 523 medaglie d’oro, 271 d’argento e 225 di bronzo. Totale 1019: nelle virtuali posizioni di vertice del medagliere storico 1896-2016. Il motto di Stanford, formidabile soprattutto nel nuoto (Janet Evans, Jenny Thompson, oggi Katie Ledecky) è “Die Luft der Freiheit weht”, il vento della libertà soffia. Perché sia in tedesco non è chiaro neppure a chi vi ha dedicato studi. Potrebbe essere una citazione tratta da testi della Riforma, un elogio a Martin Lutero.

Stanford, contea di Santa Clara, a un tiro di sasso da Palo Alto (altro luogo memorabile), è a una sessantina di chilometri a sud di San Francisco e nei pressi della Silicon Valley. A chi non è più giovane ridesta vecchi e piacevoli ricordi: una specie di tempio del salto con l’asta, da Cornelius Warmerdam (e anche prima delle ascensioni dell’Olandese Volante…) a Stacy Dragila, un buon posto per i lanciatori di peso e di disco e in un giorno lontano ormai oltre mezzo secolo, un luogo di tregua, di sospetti accantonati, di indimenticabile spettacolo. 

Nel 1962 la fallita invasione di Cuba, con il disastro della Baia dei Porci, e l’abbattimento dell’aereo spia di Gary Powers avevano reso tesissimi i rapporti tra Washington e Mosca. Una vignetta mostrava John Kennedy e Nikita Krushev impegnati in un braccio di ferro, seduti su bombe atomiche che facevano tic tic tic. In uno scenario da Dottor Stranamore, i destini del mondo erano affacciati su un conflitto nucleare. La sfida tra Usa e Urss venne organizzata ugualmente e il merito deve esser assegnato a Payton Jordan, capo coach dell’Università di Stanford, e a Gavil Korobkov, commissario tecnico dell’Urss. Lavorarono di comune accordo e realizzarono quel che vecchi storici definiscono ancora il più grande incontro della storia. Per giustificare l’etichetta è sufficiente ricordare il numero degli spettatori: 72.500 la prima giornata, 81.000 la seconda, il pubblico più folto registrato in un evento non olimpico: il record tiene tuttora.

Qualcuno preferì un’altra definizione: il Barnum dell’atletica. E qualcun altro, come Ralph Boston, lo spogliò del suo significato politico: “Non pensavo alla Guerra Fredda, vedevo solo quella grande squadra che era venuta dall’altra parte del mondo”.

Il cast era formidabile: Bob Hayes, Al Oerter, Wilma Rudolph, Igor Ter Ovanesian, Boston, le sorelle Press, Hal Connolly (che sparò il martello a 71,05, il suo quinto record mondiale, battendo Balkovski e Bakarinov) e Valeri Brumel. Un anno prima, nello scontro dei titani, il re del ventrale era stato il protagonista del faccia a faccia di Mosca, scavalcando 2,24, il secondo dei suoi sei record mondiali, e lasciando a 2,19 John Thomas che proprio a Stanford, il 1° luglio del ’60, aveva affiancato la vittoria nei Trials a un mondiale portato a 2,22. Il 22 luglio 1962, nello Stanford Stadium, Brumel salì a 2,26 dopo otto salti e un solo errore a 2,18 prima di concludere con tre tentativi a 2,28 che avrebbe superato, ancora in un match contro gli Usa, il 21 luglio 1963 nella capitale sovietica. Destò stupore la quota che chiese a vittoria ottenuta: 2,30. Il confronto tra americani e russi ha sempre fatto accendere le polveri dei saltatori: nel ’71, a Berkeley, Pat Matzdorf con 2,29 strappò il record a Brumel e nel ’77, a Richmond, in un match junior, il meraviglioso Volodja Yashchenko andò al di là di 2,33. Non era solo un record per la sua categoria di età. Era quello assoluto.

Nel rispetto della tradizione (che pesca sino al 1893 e annovera due edizioni dei Trials e due campionati Usa) e potendo contare sulla munificenza della Nike, la macchina organizzativa del Prefontaine Classic, che si è spostata da Eugene alla California per “lavori in corso” in vista dei Mondiali 2021, ha messo assieme un cast formidabile destinato al palcoscenico di quello che oggi si chiama Cobb and Track Angell Field: cinque seimetristi (Lavillenie, Duplantis, Braz, Kendricks, Lisek), otto pesisti oltre i 22 metri, la sfida delle generazioni tra Shelly Ann Fraser e Sha’Carri Richardson classe 2000 e un fresco 10.75, lo scontro sui 3000 Dibaba, Hassan, Obiri e Ayana, il ritorno di Caster Semenya (era iscritta ai 3000, ha chiesto di passare agli 800 e Tom Jordan, direttore del meeting, se n’è detto felice), il faccia a faccia sui 200 tra Dina Asher-Smith e Elaine Thompson e quello sui 400 tra Michael Norman e Fred Kerley, e, prima del Bowerman Mile di tradizionale chiusura, i 100: Christian Coleman, l’arciveterano Justin Gatlin, lo sperimentato Mike Rodgers, il nuovo Cravon Gillespie, 9.93 alle finali Ncaa, il campione europeo Zharnel Hughes e Pippo Tortu, appena atterrato in un nuovo mondo, un Orazio contro molti Curiazi.

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Lo Stanford Stadium in occasione del match Usa-Urss del 1962


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