Brasiliani a cinque cerchi: Adhemar

01 Agosto 2016

La storia del saltatore due volte campione olimpico nel triplo

di Giorgio Cimbrico

Se il Club Paulista de Futebol ha due stelle sul suo stemma, il calcio non c’entra niente: il merito è di Adhemar Ferreira da Silva, il brasiliano che diventò il più forte del mondo quando il calcio proprio non ci riusciva. Peggio, era appena reduce dal Maracanazo, la giornata nera del 16 luglio 1950, scandita dai gol uruguagi di Pepe Schiaffino e Alcide Ghiggia. Una sera di ventun anni fa, in una strada di Goteborg, un incontro casuale e commovente: Adhemar era vicino ai 70, i capelli crespi erano diventati color dell’argento, era sempre diritto e bello. Alcuni giovani colleghi non lo riconobbero e toccò a chi scrive indicarlo per quel che era, uno dei più grandi: Adhemar ringraziò sommesso ma compiaciuto, strinse qualche mano, sparì nella notte scandinava come spariva nella notte brasiliana quando in “Orfeo Negro” di Marcel Camus (con le musiche di Vinicius de Moraes) era la Morte. Il personaggio che interpretava lo avrebbe ghermito di lì a sei anni, ma in Svezia aveva fatto in tempo a vivere il sorgere di una nuova alba, suscitata da Jonathan Edwards.

Adhemar è stato un sacco di cose: l’iniziatore della tradizione brasiliana del salto triplo (cavallette più che canguri), il campione che rimbalzò in quattro Olimpiadi (sino a Roma ’60), il vincitore di due edizioni consecutive dei Giochi (prima di lui, solo Meyer Prinstein, dopo di lui solo Jozef Schmidt e Viktor Saneyev che ne allineò tre), il depositario di cinque record mondiali, sino a un 16,56 che, a sessant’anni di distanza, profuma ancora forte di modernità, il simbolo di un immenso paese che avrebbe potuto dare (e potrebbe dare) molto di più. Per ritrovare chi, nello sport brasiliano, seppe concedere un bis olimpico consecutivo è necessario fare un salto di oltre mezzo secolo e arrivare alle pallavoliste che, dopo Pechino, conquistarono la medaglia d’oro anche a Londra.
Era del ’27, veniva da una famiglia paulista inevitabilmente povera (il padre lavorava ai binari della ferrovia, la madre era domestica) ed ebbe la fortuna di incontrare un tecnico tedesco (Dietrich Greiner) che ne intuì il formidabile talento. Erano gli anni appena dopo la fine della guerra e il salto triplo viveva nel ricordo della saga scritta dai giapponesi Oda, Nambu e Tajima che avevano dominato i Giochi di Amsterdam, Los Angeles e Berlino. All’Olympiastadion, Naoto Tajima aveva toccato il muro dei 16 metri, una misura fuori dalla portata di tutti per lunghe stagioni: dodici anni dopo, a Londra, allo svedese Arne Ahman fu sufficiente alzare sabbia a 15,40 per diventare il successore del piccolo saltatore di Osaka.

Sulla pedana di Wembley era presente anche Adhemar, numero tre della pattuglia brasiliana: Geraldo de Oliveira quinto, Helio Coutinho da Silva ottavo, lui, non ancora ventunenne, quattordicesimo.

All’inizio di dicembre del ’50, in piena estate dell’altro emisfero, Adhemar eguagliò Tajima: capitò al sesto salto, dopo che nel turno precedente un millimetrico nullo era stato meritevole di misurazione: 16,02. Nell’anno della grande disgrazia, causata dallo spietato Uruguay a spese delle “cicale” brasiliane, un raggio di sole e un fremito di orgoglio. Primatista in solitario sarebbe diventato l’anno dopo, allo stadio della Fluminense, concedendo ancora l’acuto – 16,01 – all’ultima prova a disposizione.
A Helsinki, primo titolo con due record del mondo, 16,12 e 16,22 e altri due salti oltre il vecchio record. La sera ebbe in premio una torta che portava le quattro cifre del suo trionfo. Leonid Shcherbakov, primo di un’infinita tribù di sovietici, gli strappò il mondiale per un centimetro l’anno dopo, ma la risposta di Adhemar, per tutta la vita accanito fumatore, fu tonante: divenne il primo a saper approfittare delle condizioni concesse dall’altura messicana e ai Panamericani del ’55 raggiunse 16,56. Naturalmente al sesto salto.

Alla vigilia dei Giochi di Melbourne venne assalito da un terribile mal di denti, riuscì a trovare aiuto e sollievo da un odontoiatra dello stato di Victoria ma in pedana trovò il più inaspettato degli avversari: non un sovietico, ma l’islandese Vilhjalmur Einarsson (padre del giavellottista Einar Vilhjalmsson) che al secondo turno passò in testa con 16,26. Questa volta Adhemar non attese l’ultimo salto e andò a segno al quarto con 16,35. E per la seconda volta vide la bandiera con O Globo e il motto Ordem e Progresso, e per la seconda volta udì quell’inno che non finisce mai, con ouverture e svolgimento, esibendo quel sorriso buono che non l’abbandonò mai.

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