25 anni fa la tripletta Mei-Cova-Antibo



“Ti rendi conto? E’ passato un quarto di secolo. O forse è un secolo o forse è un attimo. La pioggia leggera, il Neckarstadion, i cambi di velocità, tutto vissuto dal di dentro. Quel filmato l’ho visto, rivisto e poi l’ho fatto vedere a Sebastiano e Leonardo, i miei figli. Bello, non c’è che dire. Chissà capitasse oggi che bombardamento su Youtube”. Dal 26 agosto 1986, dal 10000 degli Europei di Stoccarda, dalla tripletta, da Mei-Cova-Antibo, sono passati 25 anni. Mei, spezzino di Ceparana, di anni oggi ne ha 48, ma il tempo non gli ha appiccicato scorie, non gli ha aggiunto chili, non gli ha diradato le chiome.

Mei-Cova-Antibo, l’occupazione del podio continentale, il duello dei tre Orazi senza Curiazi a importunarli è un capitolo che qualcuno può sbrigare con un aggettivo gonfio (esaltante) quando sarebbe meglio usarne uno fragile come una porcellana di Meissen: delicato. E così, la mattina dopo, tra le mani un’Equipe arrivata fresca nel Wurttemberg, si finì per sorridere di fronte al gran titolo che occupava la prima pagina: VIVA LA SQUADRA, così, in italiano. I francesi erano stati molto gentili, ma non avevano capito niente. Mei, Cova e Antibo (così, staccati, senza trattini a unire ciò che non era unito, è meglio…) non erano una squadra. Tra loro correva indifferenza, silenzio, sibilavano parole che era difficile zuccherare. Mei era carico d’ira, un giovane Holden che voleva spaccare il mondo mangiando pane e bevendo acqua, Cova era carico di trionfi (una tripletta Europei-Mondiali-Olimpiadi solo il lombardo è riuscita a metterla assieme: avrebbe potuto centrarla Sara Simeoni ma Primo Nebiolo non aveva ancora inventato i Mondiali), Antibo era un cavallino selvaggio che non sapeva ancora quanto la sorte, dopo avergli concesso la doppia gioia di Spalato ’90; gli sarebbe stata avversa colpendolo con il “piccolo male”. Il tempo è servito a spazzare via i castelli di rabbia.

Ex golden boy, Stefano si sentiva corridore da nobile miglio ma il suo mentore Federico Leporati capì che lo spunto finale non avrebbe permesso al suo allievo di esprimersi secondo ambizione assoluta nel mezzofondo veloce. Trasportato su distanze più lunghe, lo spezzino dimostrò di poter piazzare due, tre cambi di velocità anche in finali concitati. La prova generale fu il campionato di società, a Cesenatico, quando Cova constatò la formazione di crepe sul terreno a lui più congeniale. La gara di Stoccarda fu una lunga attesa della campana: tre italiani avanti (“Mei, Cova, Antibo: è tutto uno scintillio di azzurro”: necessario  il ricorso a Paolo Rosi, in fremente attesa di chi avrebbe violato per primo la meta dell’arrivo) prima che Stefano si liberasse di Totò e domasse Albertino il serial killer con tre accelerazioni, prima di un arrivo trionfale sotto una pioggia sottile. In tribuna, emozione e lacrime.

Mei: “Credo che il segreto, la chiave per capire quel che avvenne dipenda da Leporati, l’uomo più importante della mia vita. Capì che la qualità ell’allenamento poteva avere la meglio sulla quantità, capì anche che dovevo allungare, portare la mia sfida sui 5000, sui 10000”. Fu una scelta che stupì: Stefano aveva una corsa calligrafica quanto economica era quella di Cova, quanto naturale, ma non elegante, era quella di Antibo, tagliati per le lunghe distanze. “Rispetto a loro, si trattava di colmare un gap di 200, 250 metri. Lo colmammo lavorando da duri e puri, come al solito, senza cedere a tentazioni, proprio come i tre campioni che per me hanno rappresentato il massimo e per cui sono disposto a mettere la mano sul fuoco: Sebastian Coe, Steve Ovett, Steve Cram. Rifletto, ricordo e non ho timore che qualcuno mi accusi di essere un rodomonte se dico che in quei giorni di Stoccarda ero il più forte del mondo. Capace di tenere ritmi forti, di aumentare, aumentare, aumentare”.

Mei andò vicino alla doppietta europea riservata a pochi: l’ultimo giorno dei campionati, stretto tra due inglesi, Stefano seppe domare Tim Hutchings, ma lasciò scappar via quel dentone di Jack Buckner, un fratel coniglietto che visse in quei momenti concitati il suo giorno dei giorni. Né Hutchings né Buckner avevano nelle gambe quel 10000 irto di passione, di rivalità. Una settimana dopo, a Rieti, avrebbe portato il record italiano dei 1500 a 3’34”57. Era un migliarolo prestato alle distanze lunghe: nessuno doveva dimenticarlo. “Io non ho dimenticato niente. Ad esempio che non sono quello che ha ballato soltanto quella sera di 25 anni fa. Settimo alle Olimpiadi nei 5000,  a Seul, ancora sul podio agli Europei di quattro anni dopo. Stoccarda è solo una pagina della mia vita”. Ne è veramente convinto? “No”.

Giorgio Cimbrico

 

 




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