10 anni di Brugnetti l'artista

28 Agosto 2014

A un decennio dalla vittoria all'Olimpiade di Atene Ivano Brugnetti nel racconto di Giorgio Cimbrico

di Giorgio Cimbrico

Ivano Brugnetti, detto husky per via degli occhi di ghiaccio, milanese di Bresso, campione mondiale della 50 km nel ’99, campione olimpico della 20 nel 2004, spezzando un’astinenza azzurra che andava avanti dal 1988 e dal sorriso beffardo di Gelindo Bordin. La migliore delle referenze la offre il suo vecchio mentore Antonio La Torre: “Un diamante, e come tutti i diamanti ricco di sfaccettature. Qualcuna era opaca, oscura. Insieme abbiamo esultato, abbiamo litigato, ci siamo voluti e ci vogliamo un gran bene”.

Flashback su quella mattina calda, la prima dell’atletica ad Atene. Favorito l’ecuadoriano Jefferson Perez, campione quattro anni prima ad Atlanta, ma l’uomo dell’alta sierra, devoto della Vergine del Cobra, non tiene il ritmo e la fisionomia della gara è già molto chiara dopo 12 km, singolare per una distanza che vede spesso l’equilibrio frantumarsi solo in finali concitati. Con Ivano, lo spagnolo Francisco Fernandez e l’australiano Nathan Deakes che sogna un colpo simile a quello piovuto addosso tre mesi prima ai genitori: giocando una monetina da 5 centesimi a una macchinetta per il poker elettronico avevano vinto un milione di dollari con il canguro.

All’ingresso nello stadio la slot di Deakes non distribuisce le carte buone: l’aussie prende qualche metro ed è fregato. Ivano, in testa, non si volta, affibbia cinque secondi a Fernandez, scende sotto l’1h20’, diventa campione olimpico, arrotondando, un quarto di secolo dopo Maurizio Damilano, causa una certa commozione, nel senso che in tribuna più di uno piange. “Era il sudore che mi era finito negli occhi”. “Ma dai, piangere è consentito. Non vedi, anche io mi sto asciugando le lacrime”.

Come tutti quelli del vecchio gruppo di Sesto San Giovanni, Ivano è simpatico, intelligente, vivo. E così la via migliore su cui proseguire (marciando al suo fianco) è lasciargli la parola: “Nell’ambiente mi chiamavano l’artista. Sono d’accordo. Potrei anche dire che sono stato unico. Chi ha cominciato con la fatica assoluta della 50, è passato alla 20 ed è riuscito a centrare un record del mondo nella 10 che nella marcia è velocità pura?”.

Una parabola che ha preso il via ai Mondiali di Siviglia, nel 1999: “Giornata torrida, africana. Sofferenza assoluta, piaghe nelle cosce. Chi c’era, ricorda la gioia mia, dei miei che erano venuti a vedermi, per quella medaglia d’argento. Due anni dopo, con la squalifica per doping di German Skurygin, diventò d’oro. La medaglia mi è arrivata per posta. Non è la stessa cosa”

L’uomo che nel caldo dava il meglio: “E così, dopo Atene, speravo che sarebbe andata bene anche a Pechino 2008. Partii per il bersaglio grosso, finii quinto e provai una delle delusioni più feroci della mia vita. Amavo la gara coraggiosa, con il naso davanti. Ci ho provato anche nel 2010 a Barcellona, agli Europei. Fisicamente ero perfetto, ma la testa era vuota; la capacità di concentrazione, evanescente”.

E’ stato in quel momento che ha cominciato a pensare di chiudere: “Mi sono detto: hai veramente intenzione di puntare a un’altra Olimpiade o è meglio che lasci spazio a chi lo merita? Ho scelto la seconda opzione. Mi è costato perché mi sentivo ancora rombare”. Il vecchio amore per i motori torna in superficie: “Più che un hobby, una passione bruciante. La Torre diceva: fagli vedere un cerchione e Ivano ti dice di che macchina è”.

Il vecchio artista ora è un padre di famiglia. “Due bambine, quasi gemelle, nate a quindici mesi una dall’altra. La seconda è Federica, la prima è Vittoria. Ma il nome non dipende da quel che ho combinato ad Atene. Vittoria e basta”.

SEGUICI SU: Twitter: @atleticaitalia | Facebook: www.facebook.com/fidal.it



Condividi con
Seguici su: